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Nell’augmented intelligence la mente umana è il vero valore

“In ogni progetto di AI l’elemento qualificante è il team di uomini e donne che ci lavorano”. È il concetto più volte ripetuto da Fabio Moioli, Enterprise Service Director di Microsoft, che, intervistato da ZeroUno, illustra come si declinano le tecnologie di intelligenza artificiale, quali prospettive aprono e quali professionalità richiedono, per concludere con la nuova frontiera dell’intelligent edge

Pubblicato il 18 Lug 2018

AI significa Augmented Intelligence

Intelligenza artificiale, cognitive computing, machine learning, intelligenza aumentata… termini utilizzati sempre più frequentemente (spesso in modo inappropriato) che sono diventati la nuova buzzword del momento: guardando le pubblicità dei più banali prodotti consumer sembra che ormai ciascuno di essi abbia al proprio interno un “motore di intelligenza artificiale”. Incontrando Fabio Moioli, Enterprise Service Director di Microsoft, a margine dell’EY Manufacturing Lab (evento svoltosi pochi giorni fa dedicato alla trasformazione digitale e ai nuovi modelli di business nel settore manifatturiero italiano), proprio per parlare di come queste tecnologie stanno trasformando il nostro mondo, la prima cosa che gli abbiamo chiesto è dunque cosa intende Microsoft per intelligenza artificiale.

“Sicuramente quando si parla di intelligenza artificiale ci si riferisce a tante cose, ma quella che oggi è nello stato di attuazione ed è implementata nei prodotti è la cosiddetta narrow artificial intelligence che, basandosi su algoritmi di machine learning, è eccezionale per eseguire quello che le viene detto di fare. Siamo ancora molto lontani dalla general artificial intelligence”, afferma Moioli.

Con narrow AI si intendono tecnologie che consentono di ottenere risultati più performanti di quelli umani nell’ambito di compiti molto specifici e limitati, concentrandosi su un singolo sottoinsieme di abilità cognitive; cosa ben diversa dalla general AI che dovrebbe simulare realmente l’ampiezza e la complessità dell’intelletto umano (ma sulla cui reale fattibilità permangono molti dubbi, e non solo di carattere etico, nel mondo scientifico).

Quando AI significa Augmented Intelligence

Definito il perimetro cui si sta riferendo, Moioli precisa ulteriormente: “E infatti a noi piace parlare di augmented intelligence perché quello di cui ci occupiamo è un’intelligence legata a specifici sistemi cognitivi: riconoscimento del parlato, dell’immagine, di tutto ciò che attiene ai sensi umani. Prima dovevamo essere noi a imparare a lavorare con il computer mentre oggi stiamo entrando in un nuovo mondo dove sono i computer che imparano a lavorare con noi perché riconoscono il nostro linguaggio, il nostro viso, i gesti ecc. Una intelligenza che comprende anche gli Hololens [caschetti per la realtà mista ndr] dove il mondo degli ologrammi interagisce con la realtà per aumentare le nostre capacità offrendo una augmented experience”.

Una relazione uomo-macchina completamente diversa: “Esatto, è una relazione dove esiste una forte sinergia uomo-macchina, ma attenzione: in ogni progetto di AI l’elemento qualificante è il team di uomini e donne che ci lavorano”, risponde Moioli che porta l’esempio del progetto Flexa realizzato da Microsoft in collaborazione con il MIP Politecnico di Milano Graduate School of Business con l’obiettivo di offrire agli studenti e ai professionisti un valido supporto nel costruirsi un percorso formativo su misura. La piattaforma di continuous learning suggerirà i contenuti da approfondire, consentirà di relazionarsi con profili simili al proprio con cui condividere un percorso di crescita e gli eventi da seguire per colmare il gap tra le competenze attuali e quelle desiderate per la propria carriera. “Nel team che sta sviluppando questo progetto abbiamo neuroscienziati, psicologici, ecc.; noi ci mettiamo la tecnologia, ma il vero valore è l’intelligenza dei professori del Politecnico. È la componente umana che fa la vera differenza in un prodotto di successo, la differenza non sta nell’artificial intelligence ma nella human intelligence, che noi contribuiamo ad aumentare con la nostra tecnologia”, spiega Moioli che prosegue: “Ritengo non esista competizione tra intelligenza umana e artificiale. Queste tecnologie riescono a svolgere attività che prima ritenevamo essere dominio esclusivo dell’uomo, ma si tratta di attività ‘semplici’ che una macchina esegue in modo molto più rapido potendo elaborare una quantità di dati molto maggiore. Prendiamo l’immagine di un tumore: un algoritmo può compiere errori grossolani nell’elaborare una diagnosi, ma può mettere in evidenza anomalie che forniscono al medico elementi per individuare la diagnosi corretta. Questo significa aumentare l’intelligenza umana”.

Il nuovo rinascimento delle professioni umanistiche

In un contesto di questo tipo si aprono nuovi sbocchi per le professioni umanistiche perché, seguendo le argomentazioni di Moioli, nei team che sviluppano questo tipo di progetti sarà indispensabile la presenza di chi il comportamento umano e i processi mentali li conosce e li studia. Da un altro versante, sapere utilizzare queste tecnologie farà la differenza nell’esercizio di qualsiasi professione: dall’avvocato che, grazie ad algoritmi di machine learning, potrà revisionare migliaia di contratti per identificare, per esempio, le clausole più problematiche, al medico che, come abbiamo visto, le utilizzerà per cogliere elementi altrimenti impossibili da trovare. Guardando il futuro del mondo del lavoro, il manager Microsoft vede infatti 3 cluster di professioni: “Da una parte serviranno tantissimi esperti di queste tecnologie dai data scientist ai data strategist, ambiti dove c’è penuria in tutto il mondo, ma dove l’Italia è messa malissimo; all’estremo opposto saranno sempre più indispensabili tutte quelle professioni tipicamente umanistiche, dallo psicologo all’educatore, dall’assistente sociale al filosofo. Nel mezzo ci sono tutti quei lavori che in buona parte continueranno ad esistere, ma dovranno essere svolti in modo diverso utilizzando queste tecnologie”.

Insomma, dobbiamo imparare a utilizzare il nostro cervello in modo diverso: “Esatto. Vuol dire anche cambiare approccio nei confronti delle tecnologie. Fino al oggi abbiamo avuto un approccio top-down: facevamo delle ipotesi, fornivamo un input e ottenevamo un determinato output. Nel nuovo mondo abbiamo una valanga di dati che ‘macinati’ da tecnologie di intelligenza artificiale, generano pattern, correlazioni che ci forniscono indicazioni alle quali magari non avevamo mai pensato: è un approccio dove l’azione è generata dai dati. È una grande sfida perché, per esempio, in un’azienda significa cambiare i processi, nella scuola introdurre nuovi percorsi formativi ecc.”.

Le nuove frontiere dell’AI per Microsoft

Chiediamo quindi al manager come si concretizza per Microsoft l’impegno in questi ambiti.

“Prima di tutto stiamo mettendo algoritmi di machine learning in tutti i nostri prodotti, come, per esempio, Presentation Translator per Power Point”. Si tratta di un componente aggiuntivo che crea sottotitoli alle presentazioni in tempo reale che possono essere visualizzati nella lingua del presentatore (per una maggiore accessibilità) o in una delle oltre 60 lingue supportate fornite da Microsoft Translator. Basato sulla funzionalità live di Microsoft Translator, il pubblico può utilizzare il proprio dispositivo per seguire ciò che dice il presentatore, nella lingua preferita.

“Il secondo ambito è quello del coinvolgimento in progetti specifici, come il già citato Flexa. Il terzo è mettere a disposizione dei nostri clienti su Azure decine di modelli precompilati di machine learning dove troviamo dai più generici, come il riconoscimento del parlato, a quelli più specifici per industry; un marketplace che viene continuamente alimentato anche dai nostri partner con modelli ancora più complessi”.

Moioli illustra infine quali sono le nuove frontiere sulle quali Microsoft sta lavorando: “L’AI è nata nel cloud e lì si esprime al massimo perché gli algoritmi per il training del machine learning richiedono molta potenza di calcolo e sono necessari chip specializzati, ma la nuova frontiera sulla quale stiamo lavorando è l’intelligent edge, cioè portare l’intelligenza negli oggetti. Si tratta di una evoluzione importantissima e molto recente che stiamo portando avanti per tre principali motivi: può essere necessario che un oggetto rimanga ‘intelligente’ anche se si perde la connettività di rete (l’esempio più classico è quello delle self driving car); la trasmissione dei dati al cloud, per poter essere elaborati, consuma molta energia e in tanti scenari industriali questo può risultare molto oneroso, da qui la necessità di portare l’intelligenza più vicina al luogo dove i dati vengono generati; infine c’è un tema di latenza perché ‘spedire’ i dati nel cloud e farli tornare indietro porta un certo ritardo che in alcuni casi non ci si può permettere”.

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