Marketing, un mestiere che si è complicato

Il rapporto tra marketing e analytics ha visto alternarsi diverse ere: momenti in cui è stato al centro del dibattito di analisti e attori sul campo, periodi di disincanto e ancora ritorni di fiamma. Oggi la grande sfida delle aziende riguarda soprattutto i numerosi canali che permettono ai consumatori, e quindi ai potenziali influencer, di esprimere il proprio parere su prodotti e servizi sperimentati. Ma bisogna governare il processo di raccolta e selezione di dati e La collaborazione con il Cio è sempre più indispensabile…

Pubblicato il 17 Giu 2016

“Si è iniziato a parlare di rapporto tra marketing e It – racconta Andrea Boaretto, Adjunct professor of Multichannel marketing del MIP Politecnico di Milano – negli anni 2000 con il Crm, però spesso non vi era collaborazione tra le divisioni con la conseguenza che i progetti fallivano. Dopo 4 o 5 anni è tornato in auge il tema, parallelamente a quello della multicanalità, dato che cresceva il numero di punti di contatto con la clientela”. Oggi viviamo un ulteriore incremento di interesse sull’argomento, dovuto alla necessità da parte del marketing di avere una visione di sistema.
“Le aziende che hanno avuto maggiori ritorni in questo senso sono state quelle in cui l’amministratore delegato ha saputo dare obiettivi concreti, magari incrociati, sia a Cmo sia a Cio, mete da raggiungere che implicavano la collaborazione”, aggiunge Boaretto.

Andrea Boaretto, Adjunct professor of Multichannel marketing del MIP Politecnico di Milano

Le aziende più avanti nel loro percorso di marketing analytics sono quelle appartenenti ai settori che, per la natura del proprio business, hanno sempre raccolto dati sui loro clienti: ossia banche, utilities, telco e retail. “Le imprese che si relazionano direttamente con i propri clienti, senza intermediari di vendita, sono state le prime a rendersi conto della necessità di rendere più sofisticati i canali di acquisizione dei dati e ora guardano anche al social Crm e al tema mobile App. Uno dei prossimi passi in questo cammino sarà la predictive analytics, per cui le aziende sapranno capire, per esempio, se il cliente sta per abbandonarle e a quel punto potranno decidere se e come riconquistarlo”.
Dal punto di vista accademico, si osserva che le difficoltà in azienda non riguardano tanto la raccolta di dati online, ma la strategia più globale. Per esempio: nel momento in cui si ipotizza l’integrazione strategica di azioni di recupero di informazioni nel punto vendita (al fine di avere un quadro completo dei diversi target di utenti) si capisce che serve il wi-fi, che bisogna istruire il personale; allora arrivano; i dubbi sui costi, ci si chiede se è il caso e si parte con un pilot… Senza contare che a volte anche solo accennare ai Big data fa paura per il timore di essere investiti da un problema difficile da gestire, anche per mancanza di competenze adeguate; ma non è di questo parere Boaretto: “Non è detto che ogni azienda debba avere il proprio data scientist; può essere sufficiente poter contare su un consulente quando necessario, per evitare di avere una figura che poi non riesca a mettere a frutto le proprie competenze. È invece imprescindibile il fatto che vi sia un efficace trasferimento interno, a tutti i livelli, della cultura del dato come base del processo decisionale”.

Il calcolo del Roi

“Il fraintendimento di fondo – esordisce Guido Di Fraia, Direttore Scientifico Master Iulm Social media marketing, professore associato Processi culturali e comunicativi – riguarda il fatto che i dati che derivano da Web e social sono pensati come espressione delle performance del sito, delle prestazioni degli ambienti; essi invece sono strumenti utili allo studio di attitudini e atteggiamenti. Probabilmente tale fraintendimento è figlio di organizzazioni ancora troppo spesso impostate su compartimenti stagni, dove non c’è integrazione; inoltre è generato da una situazione in cui servono più esperti in marketing che in analytics”.

Guido Di Fraia, Direttore Scientifico Master Iulm Social media marketing, professore associato Processi culturali e comunicativi

Alla fine di gennaio 2016 sono stati presentati i risultati della quarta edizione della Ricerca-Osservatorio sull’uso dei social media da parte di 720 aziende italiane (rappresentative di 5 settori di attività, equamente suddivise tra piccole, medie e grandi con focus sul B2B), promosso dal team dell’Executive Master Iulm in Social Media Marketing & Digital Communication: “Abbiamo rilevato – spiega il direttore scientifico – che si fanno molti investimenti in social media: oggi il 73% delle aziende ha attivato almeno un canale e spende per gestirlo, monitorarlo, tenerlo vivo, ma non si è in grado di monetizzare tempo e risorse impiegate. Se da un lato è facile per le aziende calcolare il Roi di comunicazioni sponsorizzate (per esempio che conducono a visualizzazioni, iscrizioni su newsletter e così via) è più difficile farlo in relazione alla comunicazione organica, capace di dare vero valore ai contenuti. Eppure se, per esempio, pensiamo alla customer care, il ritorno sugli investimenti è ampiamente riscontrabile. Se infatti una impresa fa funzionare bene i propri canali, addirittura al punto da indurre i propri interlocutori a parlar bene di sé, la stessa impresa avrà a che fare con clienti più preparati e abbasserà il costo, che di solito è significativo, del call center”.
L’Osservatorio rileva comunque ancora parecchie incongruenze: le aziende non fanno abbastanza controlli; i contenuti sono replicati, troppo simili a comunicati stampa; non si adottano linguaggi social neppure nell’offerta, per quanto scarsa, di video; insomma si è ancora vicini all’impostazione pubblicitaria classica: “Ormai il percorso è tracciato, non ha senso evitare di essere social perché si ha paura di non avere il controllo della situazione. Ricordiamo che il compito principale di questi media è permettere di intercettare i messaggi dei clienti, quel passaparola che, anche non essendo presenti sui social stessi, ci sarebbe in ogni caso”.

Intercettare anche le domande implicite

“Negli ultimi otto mesi le azioni compiute si sono basate sull’analisi dei dati”. È l’affermazione di Daniele Chieffi, Web Media relations, social media management and reputation monitoring manager di Eni, che ritiene strategico, al fine di ottenere ritorni e performance dalle proprie attività, l’utilizzo dei dati per il processo decisionale.

Daniele Chieffi, Web Media relations, social media management and reputation monitoring manager di Eni

“Il digitale – spiega meglio Chieffi – impone di capire le domande che gli utenti pongono sul Web, siano esse rivolte in maniera esplicita o in maniera implicita. Per fare un esempio molto semplice, se mi accorgo che in questo momento l’interesse è focalizzato sul risparmio energetico, non mi concentro nell’esporre lo stato di avanzamento lavori relativo ai pozzi petroliferi. In altre parole, i concetti di analisys e monitoring rappresentano il cuore di una attività come la mia”.
La collaborazione con il Cio a questo punto è fondamentale, perché se sono necessari i dati, lo sono anche gli strumenti adoperati per acquisirli a seconda del bisogno, perché fare l’analisi del sentiment sui media online, per esempio, è cosa diversa rispetto a quella sui social network.
“A livello generale – prosegue Chieffi – noto che nell’organico degli uffici comunicazione si stanno sempre più inserendo figure tecniche, mentre l’It e il supporto tecnico si stanno concentrando sull’interpretazione dei messaggi della comunicazione. È un processo in corso che se ha degli ostacoli, sono solo di natura culturale, soprattutto nel momento in cui si mettono in discussione tradizioni troppo consolidate. Per il futuro – prosegue il manager – mi auguro che da parte di tutti vi sia una sempre maggiore presa di coscienza dell’importanza della data analysis e un crescente impegno nel coglierne il senso; vedo ancora tante, troppe azioni di comunicazione top down. Invece quello che non si potrà mai fare è l’avere a disposizione una figura che abbia entrambi gli skill (comunicazione e It) perché si tratta di competenze troppo verticali; possiamo solo continuare a confidare nella capacità di agire in modo partecipativo”.

Insieme per rendere la tecnologia funzionale

“25 anni fa un piano marketing durava 9 mesi, ora 9 settimane”. È in questa osservazione di Luca Prina, Direttore Centrale Marketing e Comunicazione di CheBanca!, la portata del cambiamento imposto dal Web.

Luca Prina, Direttore Centrale Marketing e Comunicazione di CheBanca!

“Per il consumatore – ha spiegato Prina – è molto facile manifestare la propria opinione; Facebook è una enorme piazza in cui si interfacciano oltre un miliardo di persone. Si tratta di una piazza virtuale, ma tutti noi sappiamo che tanti argomenti sollevati sui social diventano poi dibattiti vis-à-vis. Da ciò si intuisce che il nostro mestiere si è complicato, le strategie pensate a tavolino vanno assestate poco dopo averle lanciate, indirizzate secondo l’analisi dei sentiment. E non basta più fotografare la situazione, bisogna incrociare i dati con i comportamenti sociologici dei consumatori, i modi di fruizione, per esempio, che variano nelle diverse ore del giorno”.
“Sappiamo che la tecnologia c’è, dobbiamo capire come usarla e, soprattutto, mettendo a fattor comune le diverse expertise, renderla funzionale alle esigenze. Alla base di tutto questo – sottolinea Prina – c’è il buon senso, dobbiamo mettere a disposizione i know how verticali, capire i vincoli tecnici e condividere le informazioni per un obiettivo comune. Forse quando le aziende sono grandi è più difficile compiere questo lavoro; bisogna contrastare gli atteggiamenti che nascono dal tentativo di proteggere rendite di posizione. D’altra parte – conclude il top manager – credo che ancora si parli troppo di tecnologia fine a se stessa. Tutte le start up sono digitali, ma questo non è una garanzia, infatti tantissime falliscono. Bisogna ricordare che la tecnologia mette a disposizione il mondo (nel vero senso della parola), ma componenti fondamentali del successo continuano a essere immaginazione e creatività”.

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