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Carbon neutrality e competitività: il dilemma digitale della siderurgia post Covid-19

Accusa l’impatto del Covid-19 ma non è l’emergenza sanitaria a bloccare la digitalizzazione del settore siderurgico italiano bensì la mancanza di competenze digitali specifiche. Ne occorrono anche per affrontare grazie alle nuove tecnologie, quella che è la vera sfida per i prossimi anni, la carbon neutrality, da raggiungere senza perdere competitività rispetto alla Cina.

Pubblicato il 24 Mar 2021

siderurgia

Decima a livello globale e seconda solo alla Germania in ambito europeo, la siderurgia italiana dà lavoro a 33.400 persone e porta ricavi per quasi 60 miliardi, ma non solo. È anche considerata all’avanguardia dal punto di vista dell’impiantistica e della digitalizzazione su cui continua ad investire da anni e vuole continuare a farlo mirando alla carbon neutrality senza però perdere quote di mercato. Scattando una fotografia del settore siderurgico italiano, e anche europeo, all’inizio del 2021 ciò che emerge è un settore situato tra due fuochi: da un lato la digitalizzazione e la decarbonizzazione come obiettivi sfidanti, necessari e di ampio respiro, dall’altro la forte esigenza di restare competitiva nel contesto globale presidiando le eccellenti posizioni conquistate.

Un 2020 pesante ma con un colpo di reni finale

Con una contrazione della produzione del 15,8% rispetto al 2019, i primi 10 mesi del 2020 sono stati drammatici per il settore siderurgico italiano che ancora oggi si può considerare in convalescenza. “È stato un anno fortemente segnato dall’emergenza sanitaria che ha portato pesanti rallentamenti e a fermate produttive nazionali, europee e anche mondiali piuttosto significative. In Italia abbiamo registrato un forte calo di produzione tra il mese di marzo e il mese di aprile, con un -40% di produzione proprio a causa lockdown .- spiega Flavio Bregant direttore generale di Federacciai – negli ultimi mesi dell’anno le aziende con un colpo di reni e uno slancio di competitività sono riuscite a recuperare e abbiamo chiuso il 2020 con un -12 %. È decisamente un risultato inaspettato che, a primavera, era difficile pensare di raggiungere”. Sostanzialmente in linea con quello della Germania (-13,9%) e dell’Ue (-16,7%) e nettamente migliore rispetto a quello della Francia (-25,2%) e della Spagna (-24,3%), il dato italiano segna comunque un anno “che bisognerà archiviare anche se siamo fieri di poter dire che siamo riusciti a contenere la grossa perdita”. Non solo, c’è anche una nota positiva: gli investimenti non sono stati bloccati.

foto Flavio Bregant
Flavio Bregant direttore generale di Federacciai

Non è il Covid-19 ma la mancanza di competenze a frenare la digitalizzazione

Non solo quelli strettamente legati alla produzione ma anche gli investimenti per l’accelerazione della digital transformation sono stati confermati perché visti come una ulteriore spinta a quella competitività di cui il settore ha bisogno per difendere la propria quota di mercato a livello globale e come un passo necessario per portare efficienza, in termini sia produttivi che energetici. Come spiega Bregant, “abbiamo dovuto adattare la digitalizzazione a tecnologie pesanti ma non è questo che la ostacola e nemmeno l’emergenza sanitaria, bensì la mancanza di competenze digitali specialistiche per il nostro settore. C’è un grande gap formativo, già a partire dalla scuola e dagli insegnanti. Noi possiamo anche fare investimenti in digitalizzazione ma senza competenze non si va da nessuna parte”.

Oltre a questo problema, per cui le singole aziende e anche Federacciai stessa stanno cercando di porre rimedio con academy e corsi su tutto il territorio italiano a proprie spese, c’è anche quello della tenuta dei sistemi informatici in generale: “è necessario ragionare su tutto il sistema globale e sulla cyber security, visti gli attacchi informatici molto forti che si sono riscontrati. La digitalizzazione deve essere accompagnata da un aumento di sicurezza perché nel nostro settore ci sono laminatoi con pezzi di tonnellate che viaggiano ad alta velocità e anche un minimo bug informatico causerebbe disastri”.

Un mercato mondiale dominato dalla Cina, poco “free and faire”

Per l’applicazione delle nuove tecnologie, l’Italia a detta di Federacciai resta comunque “un faro a livello mondiale ed europeo” e la validità del settore è confermata anche dai dati di import ed export che mostrano nel 2020 un calo della dipendenza dall’estero, soprattutto dai Paesi extra Europei. Le importazioni tra gennaio e settembre del 2020 hanno segnato un – 23,5% rispetto al medesimo periodo del 2019 con una correlazione diretta praticamente perfetta tra distanza e cali mentre le esportazioni hanno tenuto meglio, calando solo del 17,5% e concentrandosi soprattutto sull’Unione Europea (75%).

Gli altri Stati del nostro continente, seppur con tempi diversi, hanno avuto un 2020 simile a quello italiano ma osservando il dato globale della produzione siderurgica si registra una riduzione solo del 2% rispetto allo stesso periodo del 2019. Questo dato, fornito dalla World Steel Association, è presto spiegato guardando alla straordinaria performance della Cina che ha chiuso il 2020 con un +5,5% e una quota di mercato che, salendo dal 53,7% dell’anno scorso al 57,8%, conferma la sua predominanza senza pari ormai da oltre 50 anni.

L’Europa, che nel suo complesso segna una contrazione della produzione pari al 16,7%, si trova ancora una volta ad assistere ad un progressivo spostamento dell’asse da ovest a est, con protagonisti, assieme alla Cina, anche altri Paesi come l‘Iran e il Vietnam che possono essere considerati i più evidenti “vincitori” della sfida della pandemia. Nei prossimi anni puntano a salire ancora ed è proprio per questo che, tra le priorità per il 2021, Federacciai indica quella di “agganciare la rincorsa e cercare di tornare ai livelli produttivi significativi che avevamo anche prima, nel 2019, cercando soprattutto di mettere a posto contingenze che devono riguardare il mercato mondiale” spiega Bregant sottolineando la forte internazionalizzazione del settore siderurgico e auspicandosi quindi un mercato globale “free e faire, competitivo e con regole uguali per tutti”.

La sfida del 2021: carbon neutrality senza perdere competitività

La pesante sfida di competitività con la Cina e con tutti quei Paesi con meno obblighi di quelli europei si gioca su fattori importanti della produzione come quello dell’efficienza energetica e, più in generale, della decarbonizzazione riproponendo, come nel caso della digitalizzazione, la stessa situazione in cui la volontà di fare investimenti, per lo meno da parte dell’Italia, si scontra con la necessità di non perdere quote di mercato.

“L’Europa ha posto degli obiettivi eccezionalmente sfidanti per la tutela dell’ambiente, anche la siderurgia è coinvolta e stiamo spingendo molto forte sull’acceleratore per raggiungere la carbon neutrality ma questo inevitabilmente richiede eccezionali investimenti, sia per realizzare un cambio tecnologico sia accelerare l’innovazione tecnologica – spiega Bregant – E’ quindi chiaro che gli investimenti devono essere accompagnati da strumenti finanziari e di sostegno e anche da politiche che salvaguardino la competitività. Se le industrie europee devono soggiacere ad obiettivi e costi molto forti rispetto a concorrenti extra europei senza avere nessuna tutela, è chiaro che il mercato ne soffre. Stiamo spingendo forte ma dobbiamo costruire delle condizioni al contorno favorevoli, per fare in modo che questo mercato rimanga competitivo a parità di condizioni. ‘Carbon neutrality’ in Cina resta una parola vuota, un teorico obiettivo per il 2030, lo stesso vale per India e Turchia: questi Paesi sono molto meno sensibili dal punto di vista ambientale e possono arrivare sul mercato europeo con costi di produzione decisamente più bassi. Bisogna fare in modo che la Commissione Europea, quando impone obiettivi vincolanti molto forti, stabilisca anche condizioni di pari mercato e pari opportunità”.

Di simile parere anche Eurofer (European Steel Association) che non nasconde il timore che la corsa verso la sostenibilità intrapresa dall’Europa affossi la produzione di acciaio nel continente, a vantaggio dei produttori asiatici. Colpita dal dumping cinese e dai dazi statunitensi, poi dalla pandemia, l’industria siderurgica europea – e quindi anche italiana – secondo l’Eurofer, ci metterà almeno due anni per riprendersi ma potrebbe essere proprio la carbon neutrality, assieme ad una carbon tax alle frontiere europee, ad accelerare il suo recupero.

È proprio con questo intento che è stato proposto, sempre da Eurofer, un “Green Deal per l’acciaio” con l’ambizione di ridurre le emissioni di CO2 del 30% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2018 – o del 55% rispetto al 1990 – e di avvicinarsi alla carbon neutrality entro il 2050. Iniziato a gennaio 2020 con un budget disponibile di 1,247,660 di euro, questo patto comprende interventi decisivi in quattro principali aree tra cui anche quella tecnologica, riconoscendo il digitale come un elemento fondamentale per definire e avviare percorsi a medio e a lungo termine per la decarbonizzazione dell’industria siderurgica dell’Unione Europea. Centrale sarà anche il ruolo della politica e per sapere come muoversi nei prossimi mesi basta guardare al nostro competitor principale in ambito europeo, la Germania, dove il governo ha sviluppato un piano di azione assieme alle aziende e con esse sta approntando gli strumenti per realizzarlo all’insegna della forza, della determinazione e di una grande teutonica concretezza.

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