Vodafone Europa centralizza e accelera il refresh tecnologico con Linux

Dove, come, quanto e perché rivolgersi alle tecnologie open source. Le scoperte e l’esperienza dell’organizzazione di infrastructure management di Vodafone in Europa. Ce ne parla Stefano Takacs, Head of European Database Operation dell’azienda

Pubblicato il 25 Set 2014

Oltre 21mila server. 15mila istanze di database. 26mila terabyte di storage. 4mila servizi gestiti. È la fotografia dei due hub europei – uno a Milano e l’altro a Duesseldorf – nei quali sono centralizzate le infrastrutture It di 12 country Vodafone nel Vecchio Continente. A presentarla è Stefano Takacs, Head of European Database Operation dell’azienda, con base a Milano. Fino allo scorso anno Takacs era Head of South Europe It Operations. “Nel 2014 – spiega a ZeroUno l’It manager internazionale – abbia unificato l’organizzazione europea che si occupa di infrastructure management intorno a tre ‘pillar’: server, database e storage. In seguito a questo cambiamento ho assunto la responsabilità del pillar database per tutto il continente. Parallelamente al processo di centralizzazione delle infrastrutture It nei due hub di Milano e Dusseldorf – continua Takacs, da oltre vent’anni nell’azienda – si procede a un refresh tecnologico delle infrastrutture e delle applicazioni. In questi due data center, che si trovano in country con una maggiore numerosità di hardware e software legacy, e che devono continuare a fornire supporto infrastrutturale in outsourcing alle applicazioni legacy utilizzate nei local market, si è inoltre deciso di mantenere ancora una larga parte delle infrastrutture esistenti e di attuare un refresh tecnologico più graduale. I paesi dai quali è stato effettuato l’outsourcing verso i due hub, anche per via della minore incidenza del mondo legacy, sono risultati facilitati nell’accelerazione dell’ammodernamento tecnologico. Un rinnovamento –  sottolinea Takacs – che si basa su ‘nuovi standard’ verso i quali il nostro It globale è sempre più orientato, e in particolare la virtualizzazione e la creazione di internal cloud [private cloud – ndr]. All’external cloud [public cloud – ndr] ricorriamo solo in pochi casi, fra i quali lo sviluppo e – soprattutto – il testing di nuove applicazioni”.

I vantaggi dell’open source

Stefano Takacs, Head of European Database Operation di Vodafone

A supporto della migrazione verso i “nuovi standard” di cui parla l’Head of European Database Operation, un ruolo di primo piano lo ricopre Linux. “In questo momento – spiega Takacs – i sistemi operativi che utilizziamo sulle nostre infrastrutture sono Windows, Unix e Linux. L’adozione del sistema operativo open source su server basati su processori x86 è destinata a crescere per diverse ragioni. Premesso che il principale prerequisito per la scelta di un qualsiasi sistema operativo è il supporto a lungo termine, il primo punto a favore di Linux è il costo più conveniente rispetto ad altri Os. Il secondo è la maggiore flessibilità offerta a sostegno di progetti di virtualizzazione e cloud. Il terzo è la sempre maggiore disponibilità di applicativi sviluppati per Linux. Altri due vantaggi sono rispettivamente la scalabilità – che si è sempre dimostrata molto elevata – e l’affidabilità che ormai è stata raggiunta anche nelle tecnologie open source. A testimoniare il riconoscimento di questo mix di benefici è il supporto sempre maggiore a  Linux da parte di hardware vendor. Un esempio fra i nostri principali partner – prosegue il top manager – è Oracle, i cui sistemi ad alta affidabilità Oracle Rack o le appliance Exadata, che utilizziamo per attività di business intelligence e big data (oltre a quelle di Teradata) girano su Linux . Altri hardware vendor ci forniscono macchine x86 e architetture performanti sulle quali siamo liberi di installare il sistema operativo di nostra scelta. La nostra preferenza va sempre più per Red Hat Enterprise Linux, con cui realizziamo, per esempio, grid di nodi in configurazioni ridondanti n+1 e n+2 che garantiscono la continuità del servizio”.

Il pinguino e il mondo legacy
Cosa impedisce di portare tutti i servizi sull’Os del pinguino? “Linux garantisce sicuramente risparmi e altri vantaggi allettanti” risponde Takacs. Ma nelle aziende con un elevato numero di sistemi e applicazioni legacy come la nostra, occorre tenere presenti due vincoli. Il primo, ma non il principale, è l’investimento necessario a rinnovare il parco macchine. Il secondo, ma più importante, è la difficoltà spesso insormontabile, per problemi di incompatibilità, a far girare vecchi ma ancora funzionanti applicativi su sistemi di nuova generazione. E il costo della riprogettazione di un’applicazione può essere molto superiore a quello del nuovo hardware. In realtà come la nostra e quella di altri grandi operatori telco, le installazioni di applicazioni legacy per processi come il Crm, il billing e il rating sono diventate gigantesche. I costi per la riprogettazione e (soprattutto per il testing) possono essere molto impegnativi. In alcuni local market, molto coraggiosi e facilitati dalle dimensioni più contenute del parco applicativo esistente, si è comunque già riusciti a sviluppare tutto da zero. Nei mercati più grandi è necessario procedere con maggiore prudenza, con aggiunte più graduali di tecnologie innovative”.

Riqualificazione degli skill? No problem
L’adozione dell’open source non comporta problemi di aggiornamento e di gestione di nuovi skill? “Come spiegavo poc’anzi – risponde Takacs – abbiamo riorganizzato le risorse It intorno a tre pillar: server, database e storage. Ciascuno di questi pilastri prevede al suo interno team specializzati in diverse tecnologie. Ad esempio, nel pillar server ci sono sistemisti Hp-Unix, Ibm Aix, Sun Solaris, Linux e Windows. Man mano che l’utilizzo di Unix va a decrescere a favore di Linux, facciamo in modo che gli esperti Unix acquisiscano le competenze necessarie per gestire server Linux o siano indirizzati ad altre attività. Finora non abbiamo incontrato alcun problema in questo processo. In contemporanea con questa triplice riorganizzazione, abbiamo istituito un centro di competenza trasversale ai pillar, costituito da persone in grado di interagire con i progettisti di diverse aree It e di promuovere l’accettazione di nuovi standard sia per quanto riguarda i database sia, ovviamente, i sistemi operativi”.

Linux acceleratore di innovazione
Red Hat Enterprise Linux (Rhel) sta svolgendo un ruolo propulsore per l’implementazione della virtualizzazione negli hub di Milano e Dusseldorf. “Ad oggi – sottolinea Takacs – dei 21mila server gestiti, il 65% sono fisici e il 35% virtuali. La percentuale di questi ultimi è destinata ad aumentare velocemente. La ‘customizzazione’ Red Hat di Linux – continua l’It manager di Vodafone – ci permette quindi, come fornitori e gestori di infrastrutture, di offrire anche la flessibilità e la scalabilità necessarie nello sviluppo applicativo, ormai sempre di frequente svolto sulla piattaforma Linux”.
Quali, fra i vantaggi offerti dalla distribuzione Linux di Red Hat, Takacs ritiene più degna di nota? “Sicuramente il supporto garantito per dieci anni a ogni sua nuova versione. Nel mondo dell’open source il supporto a lungo termine delle piattaforme enterprise non è sempre scontato”. L’open source si nutre della creatività e della passione di centinaia di migliaia di sviluppatori, organizzati in community sempre disponibili 24 ore su 24. Ma per l’It di un’azienda sarebbe complicato intrattenere rapporti strutturati e continuativi con queste comunità e avere garanzia di ottenere in fretta soluzioni a problemi specifici. Un dilemma evitato dai servizi di assistenza e di updating e patching di un vendor come Red Hat. Servizi che permettono ai clienti di concentrarsi solo su come cogliere le opportunità di innovazione offerte dal software a sorgente aperto ed evitare altri “mal di testa”.


Oltre 9.000 le applicazioni certificate Rhel

Red Hat Enterprise Linux è il nome che sicuramente si ricorda per primo quando si parla di sistema operativo open source per gli ambienti mission-critical. Red Hat Enterprise Linux (Rhel) è il prodotto di bandiera di Red Hat, multinazionale del software a sorgente aperto e dei relativi servizi per i mondo corporate. Un vendor fondato nel 1993 con focalizzazione esclusiva su questo mercato e che negli ultimi anni ha abbattuto abbondantemente la soglia del miliardo di dollari di fatturato.
Da Rhel (disponibile per desktop, workstation, server tradizionali e per l’high performance computing) l’offerta dell’azienda si è poi evoluta in altre aree strategiche come il middleware e le “service oriented architecture” con la piattaforma JBoss, che consente agli sviluppatori aziendali di creare, distribuire, integrare e gestire (anche in modo automatizzato) applicazioni. A queste soluzioni se ne aggiungono molte altre specifiche per creare e gestire ambienti virtuali eterogeni, cloud basati su OpenStack sia pubblici sia privati sia ibridi, gestire lo storage e per il system management. Quello che invece Red Hat non fa, attualmente, è produrre application. Per contro, ad oggi sono oltre 9mila le applicazioni sviluppate da terze parti e certificate per l’utilizzo in ambienti Red Hat. Tutti i più importanti hardware vendor, inoltre, offrono server mission-critical certificati per Rhel. La distribuzione Linux di Red Hat è peraltro installabile su server x86 32/64 bit, sistemi Itanium, PowerPc e Ibm System z.
Nelle scorse settimane è stata rilasciata la versione 7.0 mainstream di Rhel, con molte interessanti innovazioni. Chi ancora utilizza le release 5 e 6 non ha nulla da temere, perché Red Hat garantisce supporto per dieci anni e oltre (con l’extended support). Tant’è che la maggior parte dei vendor di applicativi e hardware offrono i loro nuovi prodotti certificati per Rhel 5 e 6, e qualcuno ancora per la versione 4, il cui extended support cesserà nel 2017. Per la 5 si parla del 2020, per la 6 del 2023 e per la 7 del 2027.

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