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Chi ne sa di chip? L’Italia non “produce” abbastanza ingegneri elettronici

Sul mercato c’è la metà dei laureati che servono, ma secondo la Società Italiana di Elettronica gli studenti sembrano affascinati da altro

Pubblicato il 21 Set 2023

Immagine di Mike_shots su Shutterstock

“Il vero rischio per il mondo dei chip è che tutti i vari piani di sviluppo aziendali annunciati risultino poco credibili, se continueranno a mancare persone con le competenze necessarie per implementarli. Questo può accadere anche se ci saranno materie prime e investimenti adeguati”. L’alert arriva non (per lo meno non solo) da generali analisi internazionali che diluiscono i numeri italiani in un contesto globale di molti ordini di grandezza maggiori. A pronunciarlo è Ernesto Limiti, il presidente della Società Italiana di Elettronica (SIE), numeri nazionali dei laureati in ingegneria elettronica alla mano. La loro scarsità si traduce in una mancanza di tecnici in grado di supportare le aziende chiamate ad affrontare la transizione ecologica e la rivoluzione digitale. Non si tratta quindi di uno dei tanti mismatch tra domanda e offerta di lavoro che affligge l’Italia, ma di quello che può imporre una frenata alla competitività dell’intero paese in termini di innovazione e di sostenibilità.

“Assente” un laureato su due

Dallo studio realizzato da SIE emerge una scarsa presenza di laureati in elettronica in Italia. Scarsa non solo in termini assoluti, ma soprattutto in confronto a quanti ne sono richiesti realmente dalle aziende. Si parla di un migliaio di lauree magistrali all’anno (1005 nel 2021 per l’esattezza) a fronte di un mercato che ha bisogno almeno del doppio. I conti non tornano, la “produzione” di ingegneri elettronici, quindi, non tiene il passo con le esigenze del Paese e in questo conteggio va tenuta anche in conto l’iniezione fittizia di laureati stranieri, provenienti principalmente dall’area mediterranea e del Medio Oriente. “La maggior parte di questi studenti, al termine del ciclo di studi, rientra in patria o emigra verso condizioni salariali e di vita migliori, come hanno iniziato a fare anche molti neo laureati italiani” spiega Limiti.

In questo panorama per nulla roseo, mancano anche le “quota rosa”. La presenza femminile tra i banchi dei corsi di elettronica non supera il 15%, al contrario di ciò che accade in altre specializzazioni come ingegneria gestionale o biomedica, dove la parità di genere è una realtà consolidata.

Un altro problema nel problema, ben radicato nel nostro paese proprio come quello delle studentesse STEM, è il divario di opportunità tra Sud e Nord. “Nelle regioni meridionali si fatica spesso ad attivare corsi magistrali di elettronica, gli studenti determinati a seguire questa strada si trovano quindi costretti a spostarsi al Nord, oppure a cambiarla, dato che non tutti se lo possono permettere. Anche questo fenomeno non aiuta ad alzare i numeri”.

La palese e costante rarità di persone che desiderano lavorare nel campo dell’elettronica ha fatto “schizzare in alto” i salari netti, anche rispetto ad altri rami di ingegneria. Secondo SIE, lo stipendio medio oggi si aggira attorno ai 39.000 € lordi l’anno, retribuzione mensile media in Italia, mentre lo stipendio massimo può superare i 110.000 € lordi. Nonostante questo, le immatricolazioni dei corsi di elettronica non accennano ad aumentare.

Il riservato fascino dell’elettronica

Steso il quadro da cui nasce l’allarme laureati in elettronica su scala nazionale, SIE ne ha indagato le cause, senza accontentarsi di dipingere il fenomeno come una distorsione del mercato del lavoro da imputare al “boom” mondiale dei chip.

Vanno considerati prima di tutto degli aspetti culturali, in particolare, spiega Limiti, la forte tendenza ad associare le tecnologie più accattivanti e innovative all’ingegneria informatica, tralasciando completamente il contributo fondamentale che arriva dal mondo dell’elettronica.

“Siamo vittime delle mode e dei nomi sempre più appetibili che vengono creati per lanciare nuovi corsi. Si crea solo confusione nell’offerta formativa e i giovani faticano a distinguere e a percepire con chiarezza il vero ruolo giocato dall’elettronica” sottolinea.

Servirebbe una maggiore sensibilizzazione in merito, ma su questo non si può particolarmente contare sulle scuole secondarie. Limiti fa infatti notare che non ci sono molti ingegneri elettronici tra gli insegnanti presenti nelle classi. Gli studenti non hanno esempi “vicini” e accessibili da cui poter essere ispirati e incuriositi: è quindi pressoché fisiologico che il loro primo “pensiero universitario” non sia rivolto al mondo dell’elettronica. Se guardano a ingegneria, per lo più vengono attratti da tutto ciò che ha nel nome l’AI e la robotica, il “bio” o il “nano”.

A peggiorare la situazione, secondo Limiti, c’è anche la prassi diffusa tra le aziende piccole di volere il massimo con minimo costo. “Non tutte hanno bisogno di ingegneri elettronici con laurea magistrale: a volte basterebbe un laureato triennale o un tecnico esperto”. Favorite dal tipo di contrattualizzazione, però, molte imprese puntano al massimo e, o non lo trovano sul mercato, oppure lo sottraggono ad altre aziende realmente bisognose in una competizione aperta, a colpi di RAL.

Imprese e università collaborano in attesa di un’azione di governo

In questo contesto complesso e in continua evoluzione, che mescola spinte culturali, trend aziendali ed emergenze nazionali, è necessario cercare soluzioni che uniscano le forze di soggetti con ruoli diversi. “È indiscutibile la necessità di creare partnership tra aziende e università, se si vogliono far aumentare le immatricolazioni ai corsi di elettronica” spiega Limiti. “Va avviata una massiccia opera di sensibilizzazione nelle scuole superiori con la potenza di reali testimonial aziendali che catturino l’interesse dei ragazzi e mostrino loro le reali opportunità di questa specializzazione. Ma non basta: serve un’azione forte anche nei confronti del decisore politico perché metta a disposizione risorse che supportino la penetrazione di competenze ingegneristiche anche nelle scuole medie superiori. Ci aspettiamo che il piano nazionale per la microelettronica preveda anche una parte dedicata alla formazione. È ormai chiaro che limitarsi a dare soldi alle aziende senza che abbiano persone da arruolare, rappresenta una falsa soluzione per il settore nazionale dei chip”.

Limiti porta poi l’esempio di realtà come Singapore e Taiwan. “Avendo avvertito presto il problema delle competenze, una volta rimaste isolate dalla Cina, hanno mobilitato velocemente azioni di sensibilizzazione massicce con l’aiuto di intere università. Oggi formano il personale per la propria industria dei chip a partire da studenti di 10-12 anni. Questa consapevolezza del problema, in Italia, ancora decisamente manca”.

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