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Data center UE energivori: da Nord a Sud cambiano le strategie, resta l’obiettivo Net Zero

In Nord Europa si può sfruttare il calore emesso in impianti di riscaldamento urbano. In Italia si può migliorare l’efficienza delle strutture e favorire il refresh tecnologico dei clienti. Su tutto il territorio è necessario e urgente implementare soluzioni adeguate al contesto per limitare il consumo energetico e le emissioni di CO2 dei data center. Lo chiede anche la Commissione Europea con un “Code of Conduct”, preparandosi a controllare parametri e non escludendo future soglie di efficienza.

Pubblicato il 04 Ago 2022

Data center green

Il contributo dei data center al consumo globale di energia potrebbe passare dall’1% al 14% entro il 2040. Un aumento consistente, ma ben spiegato dal vertiginoso ritmo di crescita del traffico internet (+30% all’anno dal 2010) e delle richieste di servizi digitali. La pandemia ha convinto anche i più resistenti a sbarcare on line e ora è lì che si svolgono tante attività anche quotidiane, oltre a quelle di business.

Di fronte a questo scenario, molte aziende europee si sono convinte a programmare una riduzione del loro impatto ambientale. E dato che gran parte del consumo di energia è legato al raffreddamento dei data center, una delle prime mosse è stata quella di spostarli nell’area nord nel continente.

Data Center e teleriscaldamento, un tandem win win solo nel Nord Europa

Pur chiedendo con voce sempre più ferma di ripensare alle tecnologie in essi impiegate, i Paesi nordici hanno ideato e implementato soluzioni concrete per “neutralizzare” il carattere energivoro dei data center ospitati sul loro territorio. Oslo, per esempio, lo ha fatto riutilizzando il calore prodotto collegando un sistema di teleriscaldamento alla struttura un intero quartiere.

Tecnologicamente parlando, non si tratta di una grande sfida: “tubazioni coibentate, due pompe, uno scambiatore acqua-acqua e il gioco è fatto”. Già abituati a fare ampio riuso dell’energia termica, nel Nord Europa avevano tutto pronto, è bastato integrare il data center nel circuito” spiega Massimo Mattioli, Pre‑Sales Manager dell’area EMEA di Stack, azienda che ha realizzato il progetto.

L’acqua calda del data center, ottenuta dopo aver raffreddato gli apparati clienti, tramite tubazioni esterne raggiunge uno scambiatore acqua-acqua, dove la rete del teleriscaldamento a sua volta è collegata. Lo scambiatore, di solito a piastre, permette che l’acqua fredda del teleriscaldamento sia riscaldata e allo stesso tempo l’acqua calda del data center venga raffreddata.

Tutto gira attorno a questo scambio termico e la combinazione data center-teleriscaldamento si rivela energeticamente ed economicamente win win. I cittadini risparmiano scaldando meno l’acqua del teleriscaldamento. Il data center anche, ricevendo dallo scambio un’acqua da raffreddare già a temperatura più fredda di quella che uscirebbe dal suo ciclo autonomo.

Sempre al Nord, racconta Mattioli, si può trovare la stessa soluzione applicata per il riscaldamento di vasche di allevamento per pesci. In altri casi il calore del data center viene sfruttato a beneficio interno. Scartato il progetto di usarlo per riscaldare gli uffici del data center, una soluzione troppo complessa e tutto sommato poco efficiente, il calore viene impiegato per sciogliere la neve attorno all’edificio o sul tetto, evitando di dover spendere denaro per rimuoverla. “È evidente che la fattibilità e la convenienza di queste soluzioni sono strettamente legate alle condizioni climatiche dei Paesi Nordici. Non è pensabile importarle in altri contesti, men che meno nel nostro Paese dove le temperature sono totalmente diverse”.

Efficiency by design per i data center italiani del futuro

Le due condizioni sine qua non che permettono al progetto di Oslo di funzionare sono temperature esterne basse e vicinanza del data center al centro abitato. Nessuna delle due si verifica in Italia ma, pur non essendo “un paese per data center” come la Norvegia, ne ospita diversi. Necessario quindi trovare una risposta alla richiesta – arrivata anche dall’Europa – di limitarne l’impatto energetico e le emissioni di carbonio, integrandoli nelle strategie di transizione green nazionali.

“Dobbiamo lavorare sull’efficientamento del data center stesso, sul PUE, ottimizzando il sistema di condizionamento, separando al 100% aria calda e aria fredda, e progettando strutture con spazi ad hoc funzionali” spiega Mattioli.

Il Power Usage Effectiveness (PUE) misura l’efficienza di utilizzo dell’energia elettrica da parte di un data center attraverso il rapporto tra la potenza totale assorbita e quella usata dai soli apparati IT. L’obiettivo – fisicamente utopistico – è avvicinarsi all’1. Nel 2020 il valore medio a livello globale era attorno a 1,6, nei Paesi freddi è più semplice ridurlo, ma anche in Italia si può arrivare a valori pari a 1,3.

“Uno degli aspetti decisivi è proprio il riuscire a separare totalmente i due flussi di aria, calda e fredda. Noi lo abbiamo fatto costruendo un data center con un plenum per l’aria calda. È uno spazio con un volume di 17.500 mq ben separato, sopra l’ambiente dei server. Qui vi confluisce l’aria a 30 gradi generata dalla intera sala dati, per poi raggiungere l’impianto di raffreddamento senza entrare in contatto con quella che raffredda i server. Con una buona e costante manutenzione delle strutture, questo permette anche in Italia di raggiungere ottimi PUE” spiega Mattioli.

Ci sono poi fattori esterni e poco governabili che impattano su questo parametro, come le temperature esterne e la geografia dell’area. I nuovi data center costruiti negli ultimi anni, sono già di fatto molto efficienti e i margini di miglioramento sono limitati. A oggi, uno degli spazi di manovra per abbassare ulteriormente il PUE è il parco tecnologico dei clienti. “Solo con un refresh dei loro sistemi, il data center potrebbe lavorare a 25 gradi invece che a 21, con un risparmio energetico di circa il 5% per ogni grado. Le aziende sarebbero le prime a guadagnarci economicamente, ottenendo bollette più leggere, e vedrebbero migliorare la loro situazione anche a livello di digital transformation”.

Refresh tecnologico dei clienti: l’unico next step davvero necessario

Realizzare tutti i data center come quello descritto implica un raddoppio dei costi, passando da 8 a 15 milioni di dollari per MW di potenza. Sensibilizzare i clienti sul bisogno di aggiornare le proprie tecnologie significa chiedere loro di effettuare investimenti piuttosto impegnativi. Non si può quindi puntare su queste uniche azioni per efficientare i data center italiani.

A livello di sistema, secondo Mattioli sarebbe più efficace “installare gli apparati presenti nelle varie sale dati delle aziende, non particolarmente efficienti, all’interno di data center dedicati solo a questa funzione e con strutture ad hoc. Solitamente il PUE misurato dalle aziende si aggira intorno a 2-2,5 contro l’1,3-1,6 dei moderni DC. Questa centralizzazione comporterebbe risparmi energetici importanti fino quasi a raggiungere il 100%”.

Altre tipologie di intervento potrebbero riguardare le energie rinnovabili: sono sicuramente indispensabili i pannelli solari sul tetto, installandoli sempre con estrema attenzione, per evitare che l’acqua permei all’interno. Oppure l‘introduzione del raffreddamento a immersione, “una soluzione per ora di nicchia, non estendibile in modo diffuso prima di un decennio” secondo Mattioli. Per rendere più sostenibili i data center italiani, quindi, oggi non esistono quindi molte alternative: “bisogna spingere sull’aumento della temperatura di funzionamento chiedendo ai clienti di modernizzare i propri server”.

“Arrivare a 27 gradi porterebbe un efficientamento importante, è la linea indicata anche nelle best practice del Code of Conduct per l’efficienza energetica dei data center della Commissione Europea.

Questa iniziativa, non l’unica intrapresa dai Paesi Membri, è in continua evoluzione. Un prossimo passo potrebbe essere l’inserimento dell’obbligo di dichiarare il proprio PUE, il successivo l’inserimento di una soglia massima, 1,8 ad esempio, o un più severo 1,5.

Dimostrandosi unita e più sensibile alle questioni ambientali rispetto agli Stati Uniti, l’Europa dal 2021 ha anche un “Patto per la neutralità climatica dei data center”. Entro il 2030, 25 società e 17 associazioni hanno promesso di renderli neutri fissando obiettivi misurabili ambiziosi per il 2025 e il 2030 su decarbonizzazione, manutenzione continua, consumo di acqua e, nuovamente, riutilizzo di calore.

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