La tortuosa via all’internazionalizzazione delle Pmi

Lo scenario competitivo odierno impone anche alle piccole aziende di internazionalizzarsi e questo comporta la necessità  di far evolvere anche il sistema informativo da una logica locale ad una globale, intraprendendo una via non sempre lineare, che deve tener conto dell’eterogeneità tecnologica, ma anche di fattori culturali e organizzativi

Pubblicato il 12 Mar 2008

Molto spesso le aziende italiane, per quanto di dimensioni medio piccole, sono spinte da fattori che di seguito analizzeremo in modo più approfondito, a diventare multinazionali. Ciò comporta la necessità di far evolvere anche il sistema informativo da una logica locale ad una globale, intraprendendo una via non sempre lineare, che deve tener conto non solo dell’eterogeneità tecnologica, ma anche di fattori culturali e organizzativi. Su questi temi abbiamo sentito il punto di vista di Marco Sampietro, assistente area sistemi informativi di Sda Bocconi (www.sdabocconi.it), esperto sulla tematica dell’internazionalizzazione e che sull’argomento traccia una serie di considerazioni sulla base di un recente studio effettuato (Implementing global information systems in small and medium Italian multinational corporations).

Le ragioni per diventare internazionale
La prima ragione che spinge una Pmi italiana all’internazionalizzazione è quella di vendere in un nuovo mercato. Si pensa normalmente a paesi con elevato tenore di vita, ma anche a paesi emergenti, come India, Cina, ecc. Ma le potenzialità non sempre si possono cogliere facilmente. “Paese grande non significa necessariamente grande opportunità; la cosa può anche tradursi in grande rischio – spiega Sampietro – In Cina, ad esempio, si tendeva in passato a semplificare l’approccio, ritenendo che la popolazione numerosa sarebbe stata sufficiente di per sé per garantire il successo. L’esperienza invece sta insegnando che vanno pianificate sia la reale capacità di spesa e sia l’effettiva propensione alla spesa”.
Ci si internazionalizza però anche per andare in paesi con disponibilità tecnologiche più elevate o per cercare manodopera a basso costo. Quest’ultima è ancora una delle principali motivazioni per molte aziende italiane, anche di dimensioni medio-piccole, che hanno scelto la via della delocalizzazione produttiva. Una prospettiva rischiosa, se basata unicamente sulla prospettiva di risparmio.
“Anche in questo ultimo caso si deve evitare di ragionare in termini di riduzione della spesa senza calcolare i costi aggiuntivi indotti”, commenta Sampietro, portando ad esempio il caso di un’impresa che, facendo correttamente i conti, aveva rinunciato alla delocalizzazione avendo verificato che la produzione sarebbe alla fine costata di più in un paese a basso costo di manodopera rispetto all’Italia. Senza calcolare problemi che per alcuni prodotti possono essere rilevanti, come il time-to-market, visto che non si tratta di trasferire le informazioni da un ufficio all’altro, ma fra sedi che si trovano in parti diverse del mondo.
Un ulteriore impulso per l’internazionalizzazione delle imprese italiane deriva dalla necessità di seguire un grande cliente che si sposta o apre nuove sedi. In questo caso è molto basso il rischio di mercato; non manca tuttavia quello connesso al rischio di produzione e gestione di persone con culture differenti, capacità che sembra le imprese italiane possiedano a differenza di quelle di paesi che hanno un’identità nazionale più definita.
“Nelle nostre analisi abbiamo notato grande capacità da parte delle imprese italiane di gestire culture differenti, che non è però immediata, ma segue generalmente una prima fase di difficoltà che poi viene superata positivamente”, sottolinea Sampietro.
Per le Pmi un’ulteriore problematicità deriva dalla scarsa disponibilità di risorse, che si traduce nella difficoltà di identificare una persona adatta a gestire la presenza all’estero.
Questa si somma con la scarsa attitudine alla delega, che crea difficoltà a reclutare persone in loco e saperle controllare a distanza. “In alcuni casi l’incapacità di delega si è tradotta nella rinuncia all’internazionalizzazione o nella scelta di mandare una risorsa interna all’estero – ricorda Sampietro. – L’implicazione positiva di questa scelta è la possibilità di replica del modello aziendale all’estero, ma l’altra faccia della medaglia è quella di privarsi di una risorsa preziosa distolta dalle attività presso la casa madre”.
Nonostante queste difficoltà, non sono presenti all’estero solo le grandi imprese costrette, per crescere, a scegliere la via dell’internazionalizzazione, ma anche molte aziende di dimensioni ridotte (attorno alle 100 unità) sono ormai localizzate in più paesi stranieri.
Molto importante per questa decisone e per il percorso, più ancora della dimensione è la data di nascita dell’impresa.
Un’azienda che nasce oggi ha un management giovane, che conosce bene l’inglese, ha una visione più internazionale fin dall’inizio, quindi pensa in termini di mercato globale e va a produrre dove più conviene. Sono le imprese ‘born global’.
“Nelle analisi tradizionali viene definita una traiettoria tipica, che vede la nascita e la crescita dell’impresa nel proprio mercato locale per pensare a nuovi mercati solo come conseguenza di tensioni di costo o di necessità di espansione, cercando generalmente di rivolgersi a mercati vicini e solo successivamente si pensa a mercati più lontani – commenta Sampietro – Del tutto diversa la traiettoria delle imprese ‘born global’, che ragionano da subito in un’ottica globale”.
Diverso di conseguenza anche il percorso per l’internazionalizzazione dei sistemi informativi.

Internazionalizzare un sistema informativo
Chi nasce con l’idea di essere globale e ha una storia recente, pensa generalmente di acquisire fin dall’inizio un software fra i diversi pacchetti nativamente multilingua e orientati all’internazionalizzazione. “Diverso il discorso per le imprese da tempo sul mercato, che spesso hanno un software sviluppato in casa e ritagliato sulle specifiche esigenze, che si presta scarsamente alle esigenze di imprese globali”, ricorda Sampietro. Si ha dunque a che fare con un software tagliato sulle specifiche richieste e dunque molto performante a livello locale, ma non sempre capace di assorbire i successivi cambiamenti. Le analisi di Sda Bocconi evidenziano inoltre una forte sottostima dell’impatto dell’internazionalizzazione sui sistemi informativi.
“Spesso si pensa che andare all’estero significhi solo replicare quanto fatto in Italia – nota Sampietro – Invece di replicare all’estero il proprio abito sartoriale risulta però in genere più facile acquisire un pacchetto già pensato per operare in più contesti territoriali”.
Tuttavia poche sono le imprese capaci di prevedere l’impatto dell’internazionalizzazione sui sistemi informativi, che di fatto sono all’inseguimento del business. “Prima si vede l’opportunità strategica, solo dopo si pensa ai sistemi informativi”, dice Sampietro.
La creazione o l’affitto di un capannone industriale sono spesso più rapidi dell’implementazione di un sistema informativo complesso. Ci sono dunque fasi durature in cui le aziende hanno un coordinamento blando, con mezzi rudimentali come il foglio Excel con i dati fondamentali e la conseguente difficoltà di vedere, da parte dei manager della casa madre italiana, i dati di gruppo integrati con tempistiche e livelli di dettaglio soddisfacenti”. Un rimedio è allora il potenziamento della Intranet per poter almeno vedere in tempo reale gli aggiornamenti effettuati dalle diverse filiali realizzando nei fatti un repository comune dei dati, fino ad arrivare all’integrazione delle applicazioni o alla sostituzione con un pacchetto standard comune nelle diverse country.
In sintesi l’internazionalizzazione dei sistemi informativi prevede in genere tre fasi:
il coordinamento di tipo estemporaneo o su richiesta con strumenti elementari, con la creazione di template comuni a partire dall’identificazione delle informazioni minimali necessarie per poter gestire in modo coordinato il business;
l’impiego di tecnologie internet/intranet per poter accedere agli stessi dati;
l’integrazione fra applicativi differenti o copertura con pacchetto standard replicato nelle diverse subsidiary.
Ma percorrere queste tappe è tutt’altro che semplice. La lingua, spesso banalizzata a livello di sistemi informativi, può portare a notevoli complicazioni di comprensione.
Un ulteriore aspetto per un’impresa che si muove in più paesi con culture differenti è la maturità nell’uso delle tecnologie nelle diverse aree. “A livello del sistema informativo, infatti, la tendenza è verso la standardizzazione del sistema su base globale, ma è necessaria una mediazione fra diverse culture”, ci ricorda Sampietro.

Alcuni consigli sulla base dell’esperienza
Da quanto analizzato sulla base delle esperienze delle imprese che hanno internazionalizzato si possono trarre alcune considerazioni di sintesi.
Non banalizzare ma pianificare nel dettaglio, andando ad analizzare soprattutto le varabili organizzative. “La tecnologia esiste, sono tanti i prodotti internazionali disponibili e i global vendor in grado di seguire i progetti e la successiva gestione, mentre solo in casi rari c’è qualche problema relativo alle telecomunicazioni”, sottolinea Sampietro.
Fare attenzione ai partner. “Il miglior partner in Italia non è detto sia tale anche in un contesto internazionale; la buona conoscenza del prodotto non basta”, nota Sampietro. Si sono riscontrati problemi quando ci si è affidati a partner italiani che non avevano però esperienze internazionali, visto che le variabili culturali e organizzative hanno forti ricadute sulla tecnologia.
La tendenza generale è quella della standardizzazione e della centralizzazione ma i due aspetti non vanno confusi. Mentre la prima va nella direzione di creare linee guida comuni su diversi fronti (acquisti hardware, tecnologie software, processi…) e va comunque adottata, la centralizzazione va scelta solo se in linea con il modello di business, evitando disallineamento fra It e strategia. “Sarebbe sbagliato – conclude Sampietro – una scelta di forte centralizzazione It se la strategia punta invece su una forte enfasi dell’indipendenza e della flessibilità”. Non può dunque guidare una logica di efficienza tecnologica se la forte centralizzazione può diventare fattore inibitore per la reattività e la flessibilità locale.

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