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Proof of work o proof of stake. Come gli ESG determinano il futuro delle criptovalute

Nemmeno gli episodici crolli di valore del Bitcoin riescono ad abbassare l’impatto ambientale della proof of work su cui si basa. L’alternativa della proof of stake sta prendendo piede e potrebbe aiutare Ethereum a compiere lo storico sorpasso entro l’autunno. Sarà l’opinione pubblica a decidere, la sua sensibilità verso gli ESG e il suo “timore” di un intervento normativo europeo in merito. Ma non servirà attendere una legge: sarà il mercato, già forse nel 2023, a premiare il meccanismo di consenso dominante nel futuro delle criptovalute.

Pubblicato il 01 Ago 2022

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Non più priorità di una nicchia di ambientalisti e semplice fattore “nice to have” per il resto del mondo: gli ESG sono entrati con prepotenza in ogni settore. In quello della blockchain, ha innescato una potenziale svolta, aprendo molte discussioni attorno al consumo di energia legato al meccanismo di consenso alla base della rete. Il mercato si sta dividendo in due “tifoserie”: c’è chi vuole conservare la proof of work difendendola dalle accuse di “spreco di energia” e chi invece punta sulla proof of stake, sperando possa aprire una nuova era per la blockchain in un’ottica di sostenibilità ambientale.

Pro e contro delle due “proof”: consumo energetico al centro

La proof of work è l’algoritmo di consenso con cui è nata la rete blockchain, serve per confermare le transazioni e produrre nuovi blocchi della catena. Lo fa spingendo i miner a competere tra loro risolvendo problemi matematici tramite processi computazionali altamente energivori. Questo approccio ha come punto di forza la sicurezza. Il grande ammontare di energia richiesta per partecipare, infatti, scoraggia potenziali malintenzionati che dovrebbero consumarne una quantità decisamente rilevante per “proporre una storia alternativa” e inquinare, così, la blockchain.

I sostenitori della proof of work interpretano infatti l’alto consumo di energia preteso non come uno spreco, ma come un “investimento in sicurezza. Tra i difetti di questo meccanismo, unico approvato su scala e realmente decentralizzato, c’è però anche la produzione di rifiuti elettronici che impattano, ancora una volta, sull’ambiente. Chi “gareggia”, infatti, tende a dotarsi di sistemi di calcolo sempre più avanzati con un ritmo vorticoso, abbandonando l’hardware obsoleto con una frequenza elevatissima.

Nella proof of stake, al posto dell’energia, i partecipanti al meccanismo di consenso devono investire del capitale finanziario. Puntando sul blocco che vogliono aggiungere alla catena una certa quantità di criptovalute, ne riceveranno poi altre come ricompensa per aver votato su transazioni legittime. Il meccanismo si chiama staking e si propone come alternativa “green” agli alti costi computazionali dei protocolli proof of work.

Il consumo di energia previsto è infatti altamente inferiore e anche i tempi di risposta si contraggono aumentando il throughput delle transazioni. Oltre a non essere però ancora stato veramente provata su scala, la proof of stake rischia di minare il carattere decentralizzato alla base del concetto di blockchain. Se infatti non si pone limite alla quantità di criptovalute che un singolo validatore può puntare, chi ha più disponibilità potrebbe arrivare a predominare.

Ethereum sceglie il meccanismo più green e si prepara al sorpasso

La presenza di un’alternativa alla proof of work ha posto delle domande al mercato e sollecitato alcune risposte. Quella di Ethereum rischia di scatenare una vera e propria rivoluzione degli equilibri competitivi. “Se infatti Bitcoin continua a usare la proof of work, facendone anzi una bandiera identitaria, l’altro protagonista sta passando alla proof of stake. È una transizione prevista quasi dalla sua creazione e più volte rimandata per motivi tecnici. Ora ci siamo: è stata avviata la creazione della beacoin chain ed entro l’autunno il passaggio sarà compiuto” spiega Francesco Bruschi, Direttore dell‘Osservatorio Blockchain & Distributed Ledger del Politecnico di Milano e membro del comitato nominato dal Ministero per lo Sviluppo Economico per la definizione di linee guida sull’utilizzo delle Blockchain in Italia.

Questa scelta crea una dicotomia nel mercato dall’impatto rilevante nel mondo blockchain. La sua sostenibilità energetica è un tema a cui il pubblico è sempre più sensibile e presto si troverà a scegliere tra un Bitcoin che punta sull’immutabilità della propria tecnologia e sulla stabilità, e un Ethereum che evolve e si apre ad applicazioni innovative.

La sua transizione, anche da altri punti di vista, è un “momento epocale per la blockchain e già nel 2023 ne vedremo le conseguenze. Rappresenta prima di tutto un’impresa ingegneristica senza pari nel campo dei software: cambiare il proprio core in corsa da parte di un’azienda capitalizzata è una scelta ambiziosa. Anche a livello di marketing, ha una tempistica perfetta e una potenzialità di successo significativa” spiega Bruschi.

In attesa di analizzare lo scenario post-transizione, c’è chi guarda il mercato delle cripto e prova a ipotizzare che possa registrarsi un momentaneo calo dei suoi consumi energetici a seguito degli episodici crolli del valore dei Bitcoin. Una speranza che si rivela vana approfondendo le dinamiche che caratterizzano la proof of work. A quanto emerso infatti da una stima realizzata da Digiconomist, anche se l’impronta ambientale di queste cripto è in teoria determinata dal valore di mercato, il loro impatto climatico non si riduce in maniera consistente per reazione a un calo.

Per avvertire miglioramenti, servirebbe un ulteriore peggioramento della situazione e il suo perdurare nel tempo, condizioni che per il momento non si stanno verificando. Non funziona come “in salita” dove valore e consumo energetico aumentano proporzionalmente.

Questo perché il costo del mining va diviso in due voci: acquisto dell’hardware e pagamento dell’elettricità. Quando il bitcoin sale, i minatori investono in strumenti di calcolo costosi (GPU di ultima generazione o “rig” appositamente costruiti) che spegneranno solo nel caso il costo della sola elettricità diventi superiore ai ricavi previsti. Ciò avverrebbe con il Bitcoin sotto gli 8.000 dollari.

Nel futuro delle cripto c’è una “Internet delle blockchain”

Archiviata questa ipotesi, gli occhi di ambientalisti e di appassionati di blockchain restano puntati sul possibile testa a testa di capitalizzazione tra Ethereum e Bitcoin. Se il primo si posizionerà come la cripto che non consuma energia, potrebbe riuscire a compiere il sorpasso. In vista di una eventuale legge che limiti o scoraggi l’uso di criptovalute energivore, le preferenze degli utenti si sposterebbero subito verso l’opzione green, prevedendo come le priorità dettate dagli ESG condizioneranno sempre più pesantemente e trasversalmente l’economia.

“Al Parlamento Europeo sono già stati proposti alcuni articoli relativi all’impatto climatico della proof of work, ma per ragioni sia tecniche che operative dubito si arriverà mai a vietare il mining come in Cina. Costituirebbe in ogni caso una strada poco efficace, come si sta rilevando essere anche in quel contesto. La partita non si giocherà sul piano legislativo: sicuramente sarà prima l’opinione pubblica a determinare il vincitore” spiega Bruschi.

La sua previsione per il futuro è quella di “uno scenario multi-chain con una catena principale L1, presumibilmente Ethereum, e molte altre chain L2 non in competizione con essa. La prima diventerebbe una sorta di ‘Internet delle blockchain’ dove concentrare azioni di sicurezza, settlement e gestione, le altre andrebbero a migliorarne le performance, rendendo le transazioni sempre più veloci ed economiche. E tutto si baserebbe definitivamente sulla proof of stake. Ethereum, intanto, si sta preparando al sorpasso, affiancando alla grande transizione fee più bassi e una migliore scalabilità” osserva Bruschi. Da settembre in poi si potrà già iniziare a intuire se sarà davvero questa la direzione che prenderà il mercato.

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