Tapscott: “Enterprise 2.0 non è una scelta, ma un obbligo”

Il web 2.0 non è una rivoluzione da sottovalutare. Essere una enterprise 2.0 non è una scelta, ma un obbligo. Se non si è pronti a seguire la "tempesta" si resta indietro e se non c’è innovazione, non c’è competitività e quindi non c’è business. Questo in sostanza il forte messaggio lanciato da Don Tapscott durante il recente Innovation Forum di Idc. ZeroUno ha intervistato Tapscott, coautore del best seller mondiale "Wikinomics" nonché riconosciuto guru dell’evoluzione del fenomeno Ict nelle imprese e nella società

Pubblicato il 19 Mag 2008

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All’Innovation Forum 2008 di Idc, “Mastermind” della seconda giornata è stato Don Tapscott (nella foto in alto), Ceo di New Paradigm, think tank di tecnologia e business, e co-autore di Wikinomics, libro su “La collaborazione di massa che sta cambiando il mondo”. Il suo intervento è servito da stimolo a un panel di esperti che hanno discusso sul contributo Ict per l’innovazione in Italia, nel quale, si sono confrontati gli amministratori Italiani di Hp, Ibm, Microsoft e Oracle, quello di Sia-Ssb e il direttore della consulenza di Accenture; moderatore del dibattito Roberto Masiero, presidente conferenze WW di Idc. ZeroUno ha avuto occasione di intervistare Don Tapscott che ha ci ha fornito la sua visione circa il nostro Paese e la possibilità di fare innovazione.

ZeroUno: Come può l’azienda italiana essere leader nell’innovazione?
Tapscott: Risposta troppo complessa: partiamo dal cambiamento richiesto alle imprese italiane. L’azienda, istituzione per innovare e creare beni, servizi e ricchezza, cambierà nel corso del 21° secolo, perchè un insieme di forze trasforma il modo di innovare. Le economie nei diversi Paesi devono capirlo, o scivoleranno indietro. La forza di base è “You”, cioè il nuovo modo in cui noi tutti esercitiamo le nostre capacità, come titola la copertina della “Persona dell’anno 2006 di Time” che premia tutti coloro che hanno contribuito al Web 2.0, gli internauti, quindi “anche TU”. Il nuovo web, è diventato modello di produzione; il social networking, “social production”. Il che costringe le aziende a cambiare la modalità di “ingaggio” del loro ambiente professionale, nonché, a monte, a rivedere l’architettura e la struttura aziendale in un’ottica che ormai definiamo Enterprise 2.0.

ZeroUno: C’è una lista di fattori che concorrono a cambiare l’innovazione aziendale?
Tapscott: Io personalmente individuo quattro elementi per una “tempesta perfetta”: Web 2.0; la generazione di “digitali nativi”; una rivoluzione sociale; e una economica. Il Web 2.0 non è più quello dell’era “dot com”; innanzitutto per gli accessi, oltre che da centinaia di milioni di Pc o cellulari, ormai l’accesso avviene da miliardi, presto trilioni, di dispositivi intelligenti: dalla porta “intelligente” dell’albergo con un chip che riconosce chi occupa la stanza, agli elettrodomestici per l’uso razionale di energia, allo steccato della casa che avvisa l’annaffiatoio in giardino se qualcuno tenta di scavalcato, gli esempi sono innumerevoli. C’è una vera multimedialità: il recente Festival di Berlino, per esempio, ha presentato “Cinema 2.0”. I film sono cambiati e l’agente del cambiamento sono i videogame. Ma il salto di qualità è rappresentato da ricchi servizi Web, capacità collaborative, integrabilità con l’It tradizionale, che apre all’azienda un’unica piattaforma elaborativa globale, Internet. Sulla quale un’azienda potrà pensare di muovere la sua stessa It, piuttosto che aggiungere il canale Web a un suo multicanale.

ZeroUno: Diventa critica allora un’autostrada digitale a livello Paese …
Tapscott: …assolutamente. Un’infrastruttura dorsale (alta velocità, banda larga, e tutti i nuovi servizi del nuovo web) è misura imprescindibile della capacità innovativa di un’economia, altrimenti ghettizzata “fuori” dal digital divide.

ZeroUno: E i digitali nativi (rispetto a noi immigranti)?
Tapscott: Sono la «net generation»: chi ha figli da dieci anni in su sa che usano intensivamente il computer. Per loro la tecnologia non è più la cosa complessa che abbiamo studiato, è diventata trasparente; il loro tempo online, speso a chattare, giocare, e fare assieme i compiti in remoto, è sottratto al tempo dedicato alla Tv. Non sono ricettori passivi, leggono, collaborano, compongono pensieri, sviluppano strategie coi videogame, organizzano informazione, imparano a processarla in collaborazione, ad auto-organizzarsi. I giovani sono, per la prima volta, un’autorità sul fronte dell’innovazione. Una storia su tutte: Michael Frohlich, a dodici anni project manager del suo sito, milionario a quindici dopo averlo venduto; oggi www.takingitglobal.org crea e gestisce progetti e organizzazioni per 170.000 membri in settanta Paesi e dodici lingue.
La net generation è forte in molti Paesi, ad esempio India, Iran, Usa, ma è scarsa in Europa, particolarmente in Italia per motivi anche anagrafici. La crisi di talenti in arrivo è una minaccia ai vostri sforzi innovativi.

ZeroUno: Ci aiuterà la Rivoluzione sociale del Web 2.0?
Tapscott: Si, smettendo di pensare a siti web e costruendo comunità. Hanno crescita piatta nel tempo i siti Web 1.0, con presentazione Html, mentre si impennano le comunità basate sul concetto del Web 2.0, aperte al contributo collaborativo. È il caso, per le foto, di www.kodakgallery.it rispetto a www.flickr.com, per musica e video, di www.mtv.it rispetto a it.youtube.com, che crea il contesto, e lascia il membro libero di creare contenuto, di organizzarselo e farci business. La chiave della rivoluzione sociale Web 2.0 sta nell’auto-organizzazione, che abbatte i costi di collaborazione.

ZeroUno: E da sociale la rivoluzione diventa economica?
Tapscott: Certo. Nel 20° secolo i costi di collaborazione sul libero mercato erano proibitivi, s’è creata ricchezza nel circuito chiuso delle aziende. Un primo shift di paradigmi (da produzione oraria a creazione di valore) è in atto da quando l’It ha abbattuto questi costi entro la catena del valore: con l’azienda estesa i muri delle aziende sono diventati porosi. Con Internet i costi di collaborazione sono scesi e le organizzazioni verticali hanno cominciato a evolversi in reti di business. Dato che l’innovazione viene dalla collaborazione, per sfruttare quella di massa, la struttura delle corporation, per stare sul mercato, deve aprirsi alla capacità collaborativa con l’esterno. Pur con la dovuta attenzione e con il dovuto controllo sulla proprietà intellettuale, non si deve temere di aprirsi.

ZeroUno: Ci sono linee guida per innovare?
Tapscott: Con Wikinomics abbiamo identificato sette modelli di business. Nel modello “Peer Pioneer” ci sono 150.000 progetti di soluzioni open source in gestazione; una comunità come www.spikesource.com li distribuisce, gestisce e supporta le aziende interessate; si può produrre “in modalità peer” da un libro a un fondo mutui (vedi per esempio www.marketocracy.com). Il modello “Ideagorà”, invece, è adottato, per esempio, da una Procter&Gamble per promuovere ormai più di metà della sua R&d, con 9.000 chimici interni e rapporti con un milione e mezzo di chimici freelance esterni da cui acquista innovazione. Nel modello “Prosumer”, tipico ad esempio nella moda, il cliente diventa produttore: si va oltre la centralità del cliente, lo si “ingaggia” per co-innovare nelle fasi di sviluppo del prodotto o servizio. C’è poi il modello che noi chiamiamo “dei Nuovi alessandrini”; ne sono leader le compagnie biotech che attraverso gli strumenti del web 2.0 si alleano, per esempio, per la protezione del clima, con l’idea che “una marea che sale alza tutte le barche”. Altro modello, quello della “piattaforma Internet aperta”: una Amazon ingaggia, per esempio, 200 mila programmatori che collaborano sulla sua piattaforma, offerta per soluzioni aziendali di logistica, magazzino, distribuzione, e-Commerce, sistemi di pagamento. Ancora, “Global plant floor”: seguendo questo modello, anziché progettare un aereo stile Airbus (30.000 pagine di specifiche, distribuite a sviluppo interno o a partner di catena), Boeing ha creato un ecosistema “peer” e a partire da un documento di 20 pagine (così, co-innova e co-disegna con i fornitori sul web). Infine, c’è “Wiki workplace”, il posto di lavoro aziendale performante aperto ai principi del Web 2.0 cui servono, oltre alla “vecchia” e-mail, strumenti come Wiki, Blog, Jams, Collaborative filtering, tagging, feed Rss o Telepresence, per teleconferenze con persone di altre città.

ZeroUno: Un messaggio conclusivo?
Tapscott: Nulla è più potente di un’idea il cui tempo è venuto. È venuto il tempo di un nuovo Web, di una net generation, e per i cambi conseguentemente necessari nelle corporation.


Evitare il rischio declino. Lectio brevis di Jacques Attali

Presidente della Commissione per la liberazione della crescita in Francia (www.liberationdelacroissance.fr), Jacques Attali (in foto) ha per mezz’ora “cambiato Stato”. Tanto è durata la sua “lectio brevis” all’Innovation Forum 2008 di Idc in cui ha trasferito dalla Francia all’Italia il metodo dalla sua Commissione. Ovviamente mutatis mutandis, a partire da uno Stato che all’opposto della Francia ha problemi di eccessiva debolezza, non di forza. Ne emerge una panoramica di sintesi – né edulcorata né catastrofista, solo obiettiva – di leve per la crescita del Sistema Paese e una lista di obiettivi aggressivi su cui, dice Attali, “impegnare i vari attori, per la sopravvivenza della Nazione”. «La nuova Ict è il vero fattore critico: apertura dei mercati e competitività generale ne conseguono – dice Attali. – Occorre riposizionarsi su quanto succede nel mondo, da un punto di vista sia quantitativo, che di cambiamento di scenario. Nuove dimensioni vengono dalla comunicazione sociale, che funziona nella misura in cui c’è piacere e consapevolezza di creare ricchezza nel comunicare, anziché chiudersi in se stessi. Il ruolo dello stato per la Governance è – e deve essere – propulsivo e di abilitazione delle tecnologie, come Darpa, The Defense Advanced Research Projects Agency negli Usa, che ha governato le strategie di integrazione delle tecnologie attraverso industrie militari, ma non solo. Ingrediente strategico è il territorio e il contributo all’innovazione delle città».
Come tutti gli stati Ue, l’Italia è in ritardo in innovazione, sviluppo reti, corretta accoglienza di ricercatori e universitari. Ma più di altri l’Italia, secondo Attali, ha due ritardi: debolezza dello Stato, e un 3D che è un (involontario) gioco di parole, il Domestic Digital Divide. «Il 3D italiano, l’ineguaglianza dell’accesso a Internet è un tragico handicap, che rischia di essere mortale per l’unità nazionale, Il problema, dovendone dire uno solo», dice Attali, «perché è dalla “dorsale” di alta velocità e larga banda che passano soldi, sapere, potere, con effetti autoalimentanti, quindi nuova organizzazione, informazione, insegnamento».
L’Italia ha poi come tutti, ma con uno Stato più debole, il problema di equilibrio fra Stato e iniziativa privata, fra favorire eccellenza, esperienze, innovazione ma anche unità nazionale e universalità – e non c’è che lo Stato che può fare infrastrutture: mai il mercato sarà capace di creare dorsali universali, con una strategia di scala d’insieme da città, a provincia, a nazione. «Non può che essere lo Stato nell’interesse generale a porre norme e obiettivi collettivi agli attori, una coerenza, e un’armonia di scenario, definendo responsabilità di presa in carico e governando l’articolazione di contenuti e contenitori», precisa Attali. «Compito questo delicato con nuove Ict, perché la governance del contenitore passa, quella del contenuto resta: servono autorità che definiscano nuove articolazioni e abilitino l’integrazione del nuovo contenitore e del contenuto».
Un sottoprogetto della rete per tutti è il cablaggio domestico (Adsl): il ritardo italiano è maggiore di quello francese, in Francia la disponibilità dell’Adsl dall’attuale 85% punta al 100% per il 2011, e ci arriverà. È vitale che in Italia ci si fissi al più presto un obiettivo analogo. «Tutti devono fissarsi obiettivi: le scuole (per la formazione fin dalle primarie), le Università (per l’integrazione del sistema di ricerca, la capacità di farsi finanziare dal sistema imprese mettendo a disposizione laboratori per la ricerca privata), ecc.», dice Attali che aggiunge: «Serve una domanda di consumo più strategica: ad esempio cellulari che non servano solo come accesso a partite di calcio. In Corea, c’è un sistema chiamato “Università e Città” che offre ai pendolari in treno la possibilità di seguire corsi telefonici riconosciuti e accreditati». Ma “l’inizio dell’inizio” delle nuove Ict in arrivo è il Web 2.0, cruciale per abilitare l’industria dei contenuti, il trasferimento di quanto si condivide, e la messa in comune di asset per cultura, formazione, salute e scambi commerciali. «Dai beni culturali all’entertainment, l’Italia deve capitalizzare il suo patrimonio storico e valorizzare il potenziale innovativo “in contenuti”, per aspirare correttamente ad esserne un attore mondiale primario, capace di offrire al mondo tali contenuti in contenitori nuovi», precisa Attali. «Serve poi una volontà politica forte, la presa di coscienza che una nazione incapace nei prossimi dieci anni di dare ai suoi teenager la padronanza del Web, o ai suoi diplomati la conoscenza delle nuove Ict in arrivo, è condannata al declino, come i Paesi esclusi da stampa o telefono», dice ancora Attali. «Guardiamoci dalla filosofia perdente di “recuperar ritardi”, conculde Attali. “Bisogna puntare, da oggi, alle nuove Ict con piani di medio termine di lungimirante formazione e predisposizione infrastrutturale».

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