Connessi e smart… alla ricerca di nuovi equilibri

Pubblicato il 26 Gen 2011

stefanoubertifoppa70

Talvolta, quando si parla, tra amici, del cambiamento che le nuove tecnologie determinano sulla nostra società e sulla nostra vita, il rischio di banalizzare è elevatissimo; escono frasi del tipo: “i miei figli con il telefonino…, siamo schiavi della tecnologia… tutte queste cose serviranno davvero?” e via di questo passo. Pochi, però hanno una dimensione quantitativa e qualitativa di questo fenomeno.E ancor meno la consapevolezza di quanto, in modo silente ma continuo, stia cambiando il nostro accesso all’informazione, la nostra dipendenza, l’impatto che il “digital world” sta avendo su imprese, città, nazioni e quindi anche sulla nostra vita.
Stiamo parlando del fenomeno Smart (smart computing, smart cities, smart world). Tutto ciò che è oggi migliorabile, in termini di maggiore efficienza, minore impatto ambientale, migliore governo e controllo, può contribuire a rendere più intelligente il pianeta. Il traffico, la medicina, i sistemi elettrici, idrici, di trasporto, finanziari, l’agricoltura, la climatologia, tutto, tutto ciò che vi può venire in mente è oggi oggetto di innervazione tecnologica (sensori, microprocessori, intelligent agent, e quant’altro), che governa, produce dati, ottimizza, colloquia con altri sistemi per portare ad un livello più smart, i sistemi complessi che rappresentano il funzionamento della nostra struttura organizzativa e sociale.
Per dare “A Cesare ciò che è di Cesare”, va dato atto a Ibm, come spesso accade, di aver saputo per prima “mettere il cappello” sul concetto smart, con una strategia globale di “smarter planet”, un fenomeno la cui portata sta finalmente entrando anche nella comunicazione di massa (televisione e giornali per il grande pubblico, ormai periodicamente se ne occupano). Ma di cosa stiamo parlando? Citiamo alcuni dati tratti da un nostro articolo che pubblichiamo in questo stesso numero:

– 1996: 500.000 siti web operativi.
– 2010: 200 milioni di siti – 1,8 miliardi di utenti unici.
– Oggi il Web è il canale di comunicazione usato da un terzo della popolazione mondiale; nel 2020 lo sarà per due terzi.
– 1,39 miliardi di pc, previsti 2,4 miliardi nel 2014.
– 5 miliardi di telefoni mobili con traffico mobile internet in raddoppio ogni anno.
– 60 miliardi di dispositivi intelligenti (tag, rfid, processori) oggi installati; previsti 200 miliardi nel 2015.
– 10 miliardi di apparecchi presenti nelle case per intrattenimenti domestici a forte componente digitale, con previsione di 50 miliardi nel 2020.
– È stato caricato su You Tube negli ultimi due mesi più contenuto video di quanto le tre reti americane Abc, Cbs e Nbc abbiano trasmesso dal 1948 ad oggi.
– Il volume annuo dei dati creati (15 petabyte di informazioni al giorno) sta per superare la capacità di tutto lo storage disponibile oggi prodotto sulla terra.

Ecco di cosa stiamo parlando. Di un pianeta interconnesso. Un fenomeno che genera, analizzandone le prospettive di sviluppo, due differenti visioni, entrambe peraltro presenti nella nostra società: la prima prospettiva riguarda l’enorme produzione di informazioni disponibili a cui le persone accedono e che si scambiano. Basterebbe pensare alla portata di questo fenomeno, ricordandoci che le persone sono, da una prospettiva business, il mercato, per renderci subito conto di quale opportunità da un lato, ma anche rischio, dall’altro, possono avere le aziende se non riescono a interfacciarsi con questo patrimonio informativo e di relazioni che compone oggi il mondo della domanda, rispetto al futuro dei loro prodotti, servizi e delle loro strategie in termini di accettazione, credibilità, rifiuto.
La domanda provocatoria, ma che poniamo come stimolo di riflessione, è che se il mondo oggi va nella direzione di una maggiore accessibilità alle informazioni, una potenziale maggiore intelligenza, cioè se il mondo dispone di maggiori dati e informazioni e per questo lo possiamo chiamare Smart, quanto smart dovrà essere il Cio per non essere spazzato via da questa ondata? Nella capacità di misurarsi con la combinazione digital device-produzione di dati-social networking e accesso universale sempre e ovunque, il Cio, afferma Gartner, dovrà sapersi giocare le proprie carte abbandonando rapidamente la logica del “pensiero minimalista” (risparmiamo e cerchiamo di farci bastare il budget) assumendo un ruolo proattivo di identificazione e governo delle informazioni utili a fare business integrando l’azienda, la sua organizzazione, i suoi lavoratori, nel “digital world” che sta crescendo in maniera esplosiva.
Ma attenzione: si colgono già alcuni “segnali deboli” che rappresentano poi gli anticorpi di un sistema complesso qual è quello dell’organizzazione sociale, che deve metabolizzare ogni grande rivoluzione (e quella “digitale” lo è) per giungere a un livello di utilizzo e di convivenza con il “nuovo” adeguato alla dimensione umana. Ed è questa la seconda prospettiva. Se il cablaggio dell’umanità e l’aumento esponenziale di conoscenza e relazioni tra le persone ridefiniscono alla base i meccanismi di apprendimento, i criteri di confronto, di controllo e di contatto tra le persone, creando proprio attraverso questo meccanismo relazionale un potenziale aumento di conoscenze e di opportunità, è anche vero che il rapporto tra digitale e uomo, non deve vedere la prevaricazione del primo sul secondo; in altri termini dobbiamo trovare, e non siamo certo ancora in questa fase, i criteri di governo e di convivenza con le “opportunità digitali” per evitare che lo smart world diventi più intelligente di quanto noi si sia in grado di gestire. Non diventarne schiavi; non lasciare al digitale il potere di intervenire nella definizione di modelli e tempi.
Il discorso potrebbe diventare troppo filosofico. Tuttavia è presente oggi un dibattito molto forte su questo tema. Lo si vede da molti titoli di giornali e di libri: i “born digital” e i “net generation”, testi in cui si approfondisce il fenomeno, sono affiancati da analisi che si spingono oltre, per andare a sondare come soprattutto una “adolescenza tecnologica”, imponga un ripensamento dei modelli pedagogici e formativi, evitando il rischio, come ha scritto di recente sul “Corriere della Sera” Vittorino Andreoli, uno dei più autorevoli psichiatri italiani, “di veder crescere una generazione che non sappia coltivare rapporti duraturi, portata a cercare emozioni sempre più intense, che non danno sicurezza ma solo eccezionalità, producendo una grande fragilità e una potenziale violenza”.
Non si può certo ignorare la corrente di pensiero che punta a riequilibrare la digital society. Non si tratta di anti-modernismo o peggio ancora di luddismo: ”Critica della ragione informatica”, “La tirannia dell’e-mail”, “La libertà ritrovata: come continuare a pensare nell’era digitale”, “I divari del futuro, giovani e Internet”, “Educazione, comunicazione e nuovi media”, “Strumenti della rete e processo formativo”, sono alcuni tra le centinaia di titoli di libri di analisi di un fenomeno che non vogliamo ci sfugga di mano. Oggi, negli Stati Uniti esistono movimenti di “disconnessione digitale” e di riappropriazione di tempo e di pensiero. Movimenti, ci viene in mente il recente libro di Nick Rosen,“Off the grid”, che propugnano la necessità di un ripensamento di ogni tipo di infrastruttura che guida tempi e modi dello scorrere della nostra vita. Invitando gli americani alla ricerca di più spazio, meno regolamentazioni e vera indipendenza, a porsi una domanda fondamentale: è davvero essenziale?
E per tornare a noi, al nostro settore, è ormai evidente che anche il nostro amico Cio debba essere ben attento agli tsunami che da un punto di vista tecnologico, culturale e sociale stanno cambiando la nostra vita (e il suo lavoro) per i prossimi decenni.

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