Editoriale

La digital transformation nelle urne: c’è un’occasione da non perdere

Pubblicato il 29 Ago 2022

urne

In questa atipica campagna elettorale c’è una novità piuttosto interessante. Per la prima volta (per lo meno a mia memoria) il tema dell’innovazione sembra essere trattato attraverso una lente diversa dal solito. Al posto delle usuali (e spesso stucchevoli) dichiarazioni di principio che in passato hanno più o meno lasciato il tempo che trovavano, il dibattito verte su temi specifici (come le infrastrutture) e, più in generale, sembra esserci una maggiore consapevolezza sull’impatto che la digital transformation ha sul futuro della nostra società.

La sveglia suonata con la pandemia

L’impulso a questo “rinascimento tecnologico” lo ha dato, in buona parte, l’emergenza sanitaria. La crisi legata al Covid 19 ha infatti inciso sotto (almeno) tre aspetti. Il primo, la cui evoluzione è tutt’altro che esaurita, è quello del lavoro remoto. Oltre ad aver aperto la questione dell’adozione dello smart working come “new normal”, il periodo in cui milioni di persone si sono trovate obbligate a gestire la loro attività a distanza ha funzionato come un corso di formazione accelerato.

All’improvviso, infatti, saper sfruttare al massimo gli strumenti digitali è diventato indispensabile. Privati della dimensione fisica, ci si è trovati nella condizione di dover affidare qualsiasi aspetto dell’organizzazione lavorativa a quelle piattaforme che, fino a qualche giorno prima, venivano spesso utilizzate al di sotto delle loro potenzialità. A ben guardare, qualcuno ha fatto notare come questo “effetto collaterale” del lockdown possa essere tra i fattori che hanno portato a registrare un generalizzato aumento della produttività con l’adozione del remote working.

Il secondo aspetto riguarda la crescita (anche in questo caso forzata) del numero di persone che hanno cominciato a utilizzare servizi online. Di nuovo, non si è trattato di un cambiamento epocale a livello di offerta: molti servizi (si pensi al fascicolo sanitario elettronico) erano infatti già disponibili da tempo. Semplicemente non venivano utilizzati o venivano utilizzati da una minoranza della popolazione particolarmente “smart”.

Il terzo e ultimo elemento è rappresentato da una maggiore consapevolezza dell’impatto che infrastrutture e sistemi informatici hanno sull’intero sistema paese. A crearla sono state le tante facciate prese nel corso dell’emergenza sanitaria, partendo dai problemi con i vari “click day” (qualcuno si ricorda quello dell’INPS?) per arrivare a quelli che hanno visto protagoniste le strutture sanitarie. L’esempio della Lombardia, che ha inanellato una serie tragicomica di disservizi delle piattaforme digitali in piena emergenza, è paradigmatico.

Scalabilità, gestione e monitoraggio dei processi, automazione: tutti concetti che gli addetti ai lavori conoscono bene ma che la società italiana (e la politica) hanno potuto comprendere meglio solo quando le ricadute pratiche della loro assenza hanno presentato il conto.

Serve un processo collettivo

La ricaduta di questa nuova consapevolezza emerge nitidamente nel PNRR, che dedica una buona parte delle risorse all’innovazione. L’aspetto più importante, però, non è (solo) quello quantitativo. È, piuttosto, quello qualitativo. Attenzione: non mi riferisco alla qualità dei progetti e delle normative. La professionalità di chi contribuisce e ha contribuito in passato alla definizione delle strategie di sviluppo del settore tecnologico non è in dubbio.

La differenza, oggi, può farla il fatto che le strategie possono essere davvero elaborate attraverso un dibattito ampio e condiviso. Insomma: ci sono tutte le premesse per abbandonare lo schema che prevedeva qualche dichiarazione di principio sull’importanza dell’innovazione e poi lasciava gli addetti ai lavori a doversi arrangiare da soli per metterla in pratica. Essere protagonisti di un progetto di crescita che è finalmente al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica e che può poggiare sulla definizione di obiettivi solidi e ben definiti, è tutta un’altra storia.

Tutto questo a patto che non si verifichino amnesie su alcuni temi fondamentali, come quello della cyber security, del diritto all’accesso a Internet o (vero elefante nella stanza) della sovranità dei dati. Concetti che cominciano ad avere un qualche diritto di cittadinanza nel dibattito pubblico, ma che rischiano ancora di tornare a essere questioni riservate solo agli “specialisti”. Teniamo bene a mente che questo non deve succedere.

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