Venture capital: quale futuro per chi finanzia l’innovazione in Italia?

È il propellente essenziale per finanziare l’innovazione, soprattutto nell’information technology. Negli Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Israele, il venture capital spinge la crescita dei settori più innovativi con la nascita di nuove imprese informatiche, di Internet, della società della conoscenza e di alta tecnologia. Lo stesso dicasi per Cina e India dove i capitali di rischio stanno crescendo a ritmi molto aggressivi. E in Italia? Fausto Boni, nella foto, co-fondatore del fondo 360 Capital partners, ci spiega i segnali di cambiamento.

Pubblicato il 16 Ott 2007

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Il Vecchio Continente sembra perdere terreno nella capacità di attrarre capitali. Secondo un recente rapporto di Library House, specializzata nell’analisi del venture capital, nel 2006 le aziende europee hanno attirato 1,8 miliardi di Euro rispetto agli 11 miliardi degli Usa. Sempre secondo lo studio, i paesi emergenti, Cina e India, sono destinati a raggiungere per volume di capitali l’Europa entro tre-quattro anni. E l’Italia? Dopo il 1998-1999 e lo scoppio della bolla Internet, il venture capital (Vc) è rimasto praticamente assente, ai margini dei finanziamenti alle imprese ad alto potenziale, superato di gran lunga dal private equity concentrato prevalentemente in aziende già esistenti, operanti per lo più in settori tradizionali, per operazioni di espansione, di buy out e di buy in.
I dati parlano da soli: nel 2006 in Italia l’early stage financing, ovvero l’insieme dei finanziamenti seed e start up a sostegno delle imprese nei primi stadi di vita ha raccolto solo 28 milioni di Euro in 62 operazioni (56 nel 2005), cifra davvero minima soprattutto se confrontata con le operazioni di buy out che hanno superato i 2,5 miliardi di Euro (fonte Aifi, Associazione Italiana del Private equity e Venture Capital – ).
Tuttavia nel 2007 si sono presentati una serie di segnali che potrebbero suggerire un cambiamento di rotta: la creazione del polo di venture capital nell’ambito di Torino Wireless con undici fondi – che coprono tute le fasi di sviluppo di un’azienda – e risorse finanziarie complessivamente gestite per circa 1 miliardo di Euro interessate a cooperare per sviluppare anche in Italia un network di Vc, l’incremento di spin-off universitari pubblici (circa 500), l’ aumento del numero di imprenditori interessati ad operare con venture capitalist, alcune Ipo (Initial Public offering) di successo, sono segnali incoraggianti. Tuttavia, per capire se siamo di fronte a segnali deboli o indicativi di un vero cambiamento, Zerouno si è confrontata con Fausto Boni, nel venture capital dal 1997 quando come co-fondatore e general partner di Net Partners Ventures ha realizzato investimenti in Europa e, oggi, co-fondatore del fondo 360 Capital Partners, focalizzato sui mercati di Italia e Francia.

ZeroUno: Perché il Vc stenta a decollare in Italia?
Boni: Per la mancanza di un sistema orientato all’innovazione e di professionalità. Negli anni a cavallo del Duemila si è assistito alla nascita di diversi fondi, per la maggior parte gestiti da investitori finanziari con scarsa esperienza specifica. Al manifestarsi delle prime difficoltà collegate alla crisi che ha investito la Net Economy questi fondi si sono immediatamente ritirati o hanno completamente riconvertito la loro strategia di investimento accumulando e generando perdite talvolta ingenti. Negli Stati Uniti e in Europa l’impatto di questa crisi è stato assorbito nei 12-24 mesi successivi; in Italia si è prolungato per 4-5 anni proprio per la mancanza di operatori specializzati e per la scarsa sensibilità delle istituzioni finanziarie nell’operare per ridare fiducia ai mercati. Tuttavia in Italia la spinta all’innovazione c’è, in settori diversi e il Vc può giocare un ruolo importante.

ZeroUno: L’Italia è un Paese di imprenditori; come mai sono ancora pochi quelli che si avvicinano al Vc?
Boni: La maggior parte degli imprenditori italiani, quelli di quarta generazione per intenderci, operano in attività e settori tradizionali, concentrate prevalentemente al Nord e non interessano ai venture capitalist che puntano a investimenti in nuove iniziative innovative. Ci sono però imprenditori giovani che hanno avviato progetti e aziende in settori innovativi, dall’high tech alle fonti energetiche alternative, dal medicale alle biotecnologie, che hanno una maggior consapevolezza del ruolo del venture capital rispetto a 7-8 anni fa. Qualche cambiamento positivo su questo fronte è visibile anche se rispetto ad altri Paesi dove tutti gli attori coinvolti in un deal conoscono gli standard di mercato e le regole, continuiamo a scontare ancora un gap culturale.

ZeroUno: Incubatori, università, parchi tecnologici stanno giocando un ruolo importante per l’innovazione?
Boni: Gli incubatori rappresentano un fenomeno marginale per una reale spinta dell’innovazione in quanto spesso non riescono a svilupparsi e diventare impresa. L’anello debole del sistema non è tanto la ricerca e la disponibilità di progetti innovativi ma i finanziamenti che servono per portare i prodotti e servizi, frutti della ricerca, sul mercato. Tuttavia svolgono un ruolo nella fase iniziale dell’innovazione, dal trasferimento dell’idea dei ricercatori in un primo abbozzo di impresa, o dal progetto di impresa alla sua nascita, e qualcosa sta cambiando. Ci sono micro realtà regionali e pool di risorse, anche eccellenti, impegnate in progetti collegati alle Università e centri di ricerca un po’ in tutta Italia: da Lecce a Roma, da Milano a Torino e a Trieste. Qualche realtà è riuscita a uscire dallo stadio di azienda incubata e ad andare sul mercato. Tuttavia sono ancora poche.

ZeroUno: La spinta all’innovazione sembra esserci; gli imprenditori anche. Che cosa manca per far ripartire il Vc?
Boni: I venture capitalisti! Per far decollare il settore occorre poter contare su un numero non troppo esiguo di fondi, di dimensioni adeguate, gestiti da manager dotati di competenze specialistiche e quindi capaci di selezionare le aziende in settori molto innovativi, di una rete di relazioni con altri Vc internazionali per operare in una logica di investimenti, di contatti, di opportunità in mercati necessariamente sempre più globali. Al momento in Italia c’è più domanda di Venture Capital di quanto non ci sia offerta.

ZeroUno: Quali prospettive reali ci sono per lo sviluppo del Vc in Italia?
Boni: Non sono pessimista. Il venture capital ha bisogno di tempo per dare risultati positivi. Se escludiamo il periodo della bolla tecnologica, il tempo medio necessario per realizzare gli investimenti, attraverso un Ipo o vendita dell’impresa, è di 6-7 anni. Oggi vediamo i risultati degli investimenti fatti dai fondi nel 2000. Penso alla recentissima storia di successo di Mutuionline, operatore nel mercato italiano della distribuzioni di prodotti di credito via Internet, che abbiamo contribuito a creare quando ancora il progetto era solo sulla carta. Oltre a ottenere risultati straordinari in termini di crescita e redditività, la società che in 6 anni ha creato oltre 250 posti di lavoro, è stata quotata al segmento Star di Borsa Italiana nel giugno 2007 con una domanda 9 volte superiore rispetto all’offerta. Attualmente capitalizza oltre 250 milioni di Euro e il fondo di Net Partners che ha investito nell’azienda ha realizzato con l’Ipo un multiplo di 23 volte l’investimento iniziale, performance eccezionale a livello internazionale. Mutuionline non è e non sarà l’unica azienda di successo finanziata dal Vc; ce ne sono diverse e siamo convinti che contribuiranno a ridare fiducia verso il Vc. Ricordo che il venture capital consente alti ritorni per gli investitori ma anche per gli imprenditori, i ricercatori e per il Paese nel suo complesso grazie alla nascita e allo sviluppo di nuove imprese capaci di contribuire allo sviluppo economico, tecnologico e competitivo. È quello che viene definito il circolo virtuoso del venture capital.

ZeroUno: Dunque, qualche buona notizia per finanziare innovazione e It?
Boni: Siamo convinti che ci sia spazio nei prossimi 7-8anni per una decina di fondi di venture capital con in portafolio aziende innovative in diversi settori. In Italia ci sono settori molto interessanti sotto il profilo dell’innovazione come i sistemi diagnostici, quello delle apparecchiature medicali di nuova generazione (cd medtech), dei prodotti e servizi legati alle energie pulite (cd cleantech), dei servizi finanziari innovativi, del software, della sicurezza. Oltre ovviamente al biotech, dove però noi non operiamo.



LA FINANZA PER START UP E SPIN OFF
A chi si deve rivolgere un ricercatore o un imprenditore per sviluppare uno spin-off o per far decollare una start–up?
Ecco chi e dove finanzia le imprese innovative:
business angel: sono investitori “informali” che acquisiscono come persone fisiche quote azionarie di imprese di piccole dimensioni nella fase di seed financing ovvero proprio alla nascita della nuova attività imprenditoriale, contribuendo attivamente anche alla loro gestione. Solitamente investono cifre non elevate, dai 20 ai 200 mila Euro e accompagnano l’azienda dal suo nascere fino all’ingresso di un venture capital; In Italia sono pochi; alcuni sono riuniti nell’Italian Business Angel Network;
incubatori: solitamente sono strutture pubbliche collegate a Università, a Politecnici, ma anche in collaborazione con banche o enti pubblici locali. Svolgono un ruolo di facilitatore e affiancano ricercatori e neo imprenditori a trasformare i progetti e le idee in imprese attraverso servizi organizzativi e logistici, di comunicazione, con consulenze nella fase iniziale del business plan e delle relazioni con potenziali partner finanziari. È nata anche una rete fra gli incubatori di cinque sedi universitarie italiane (Politecnico di Milano e di Torino, Scuola Superiore S.Anna di Pisa, Università Tor Vergata di Roma e Università Federico II di Napoli) con l’obiettivo di favorire il networking e il trasferimento di conoscenze;
finanziarie regionali: attive con finanziamenti alle imprese nella prima fase di sviluppo operano prevalentemente nell’ambito regionale di competenza: il 53% degli investimenti early stage realizzati nel 2006, secondo Aifi, si devono proprio a loro.
Qualche nome: Finlombarda che opera in Lombardia con il fondo di venture capital Next; Friulia (www.friulia.it ) in Friuli Venezia Giulai; Filas in Lazio.
fondi di venture capital: capitali di rischio e il private equity raccolgono da fondi pensione e da investitori istituzionali risorse da investire rispettivamente in start-up e in società da ristrutturare. Il venture capital prevede investimenti a medio-lungo termine attraverso l’apporto di capitale azionario (quote minoritarie). È la forma di investimento maggiormente utilizzata per la nascita di imprese innovative e high tech. Gioca un ruolo fondamentale nella seconda fase del ciclo di innovazione quando l’impresa inizia a commercializzare il risultato dell’innovazione stessa. Vi sono diversi fondi di Vc specializzati per settori e per dimensioni di investimento rispetto alle fasi di vita aziendali: alcuni operano nella primissima fase (seed early stage) quando l’idea è ancora da sviluppare con investimenti da 200 mila a 2 milioni di Euro; altri nel primo ciclo di vita (early stage) con investimenti da 2 a 5 milioni di Euro e altri ancora nell’ultima fase (late stage) con investimenti da 5 a 50 milioni. In Italia l’associazione che raggruppa i fondi di venture capital e di private equity è Aifi.
Infine, sta diventando operativa la manovra prevista dal Dipartimento Innovazione e tecnologie del Ministro per le Riforme e le Innovazioni nella Pubblica Amministrazione che intende favorire la nascita e lo sviluppo di nuove imprese innovative attraverso un fondo di 86 milioni di Euro destinate al Sud Italia (Abruzzo e Molise inclusi) attive nel settore dell’innovazione di processo o di prodotto con tecnologie digitali. Primi destinatari dell’iniziativa le Sgr, società di gestione del risparmio, che promuovono fondi di venture capital per il Sud del Paese. Il Dipartimento sottoscrive quote di fondi mobiliari chiusi con una partecipazione che non può superare il 50% del totale complessivo del patrimonio del fondo e per una durata non superiore ai 10 anni. Nel caso di successo delle iniziative imprenditoriali chiederà soltanto la restituzione del capitale investito; nel caso di insuccesso si assume il rischio del 50%. (M.C.B.)

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