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Spin qubit, circuiti criogenici e full stack adeguato: il tris quantistico di Intel 

Per riuscire a eseguire le complesse procedure promesse dai computer quantistici completamente fault tolerant, sono necessari centinaia o migliaia di qubit logici. Secondo Intel saranno “spin qubit”, accompagnati da circuiti di controllo criogenici, integrati. Sono più piccoli, resistono a temperature più alte e, soprattutto, le permettono di sfruttare la sua esperienza (e le sue infrastrutture) già sviluppata con transistor e microprocessori. “È questa la strada per arrivare alla produzione su larga scala, la sfida di ricerca più complessa e affascinante di sempre” la definisce Stefano Pellerano, dall’Intel Lab. 

Pubblicato il 07 Feb 2023

quantum strategy

Produrre un computer quantistico con miliardi di qubit a disposizione, per risolvere problemi davvero utili “e non quelli formulati apposta, come accade ora”. Dal tono di voce di Stefano Pellerano, principal engineer all’Intel Lab, si legge bene la determinazione con cui la società sta mirando a questo obiettivo. E i fatti lo confermano.

“Fino ad oggi sono stati fatti molti esperimenti e si è riusciti a produrre solo qualche decina di qubit. Sono rese molto basse, non penso sia questa la strada per portare il quantum computing su scala industriale, per un uso commerciale” spiega poi Pellerano, indicando una via alternativa: lavorare sulla tecnologia già in uso per produrre transistor e microprocessori, in un’ottica di economia di scala, per raggiungere rese elevate. Ottimizzazione, quindi, ma anche studio e ricerca, da parte di Intel, in una strategia quantistica a tridente, perché tre sono i pilastri su cui sta investendo: spin qubit, elettronica di controllo e software.

Piccoli, simili a transistor e resistenti al “caldo”: perché scommettere sugli spin qubit

Lavoro intenso quotidiano, senza grandi annunci: così inizia il 2023 nell’Intel Lab, dopo che lo scorso ottobre l’azienda ha dichiarato di essere riuscita a realizzare il “più grande dispositivo di spin di elettroni al silicio del settore”, con un singolo elettrone in ogni posizione su un intero wafer di silicio di 300 millimetri. Dalle parole di Pellerano spiccano bene l’attuale focalizzazione sull’obiettivo, e la convinzione di aver imboccato la strada giusta. Altre big impegnate in questa corsa al quantum computing per tutti, hanno “scommesso su altri cavalli”. Intel ha scelto lo spin qubit.

Detti anche qubit di spin, forniscono la loro potenza quantistica sfruttando lo spin di un singolo elettrone su un dispositivo di silicio e controllandone il movimento con piccoli impulsi di microonde.

Gli elettroni possono ruotare in direzioni diverse, indicando diversi valori, ma possono anche esistere in una “superposizione“, il che significa che hanno la probabilità di avere uno spin sia verso l’alto che verso il basso allo stesso tempo. Esattamente quello che serve per superare le sfide computazionali che i computer classici non osano affrontare. Anche i qubit semiconduttori hanno questa caratteristica, ma Intel punta su quelli di spin per due principali motivazioni: le dimensioni, ridotte, e il processo di produzione, noto.

Sono piccoli e resistenti, “sono un chicco di riso in un campo da calcio, rispetto ai qubit ottenuti con altri metodi”, spiega Pellerano. Questo impatta perché il loro tempo di coerenza dovrebbe essere più lungo e ciò favorisce la scalabilità della produzione. “Quando poi si va a guardare come si realizzano gli spin qubit, si nota che sono molto simili a un transistor, dispositivo che sappiamo produrre su larga scala e su cui vantiamo un’esperienza di oltre 5 decenni. Questo significa poter ottimizzare gli sforzi già fatti e le strutture di produzione già in funzione, oltre a poter investire su nuove tecnologie. Le stesse con cui oggi produciamo microprocessori con più di un miliardo di transistor, ci permetteranno di integrare milioni di spin qubit, per una produzione su larga scala e con grande resa” aggiunge Pellerano.

Un altro pregio degli spin qubit, è che possono funzionare a temperature più elevate rispetto ai qubit superconduttori (1 kelvin vs 20 millikelvin). Ciò significa poter ridurre drasticamente la complessità dell’elettronica di controllo, potendola integrare molto più vicina al processore.

La sfida dei circuiti criogenici integrati

Tanto trascurata fino a pochi anni fa, l’elettronica di controllo preoccupa molte big tech, ora che il sogno quantistico è meno sfuocato e l’iter per avverarlo più nitido.

“Attualmente si producono qubit in refrigerator con temperature estremamente basse, dove ciascuno necessita di tre connessioni, quindi di tre cavi. Questo è un metodo che non permette di scalare: se aumenta ancora il numero di qubit, servono troppi cavi. Noi puntiamo molto sui circuiti criogenici, per integrare l’elettronica nel refrigerator. A questo punto l’interfaccia tra regrigerator e mondo esterno diventa digitale, quindi rapidamente scalabile. Intanto all’interno qubit e circuiti, che hanno un’interconnessione molto densa, possono sfruttare la stessa tecnologia di packaging che usiamo nei microprocessori” spiega Pellerano, citando i passi avanti compiuti dal suo team negli ultimi anni.

Per esempio, quelli visibili nella seconda generazione di Horse Ridge II, nuovo circuito per il controllo criogenico. Questo chip supporta capacità potenziate e livelli più elevati di integrazione, e promette maggiore fedeltà e minore consumo di energia. “Un altro passo verso lo sviluppo di un circuito integrato quantico ‘senza traffico’” lo ha definito Intel, quando lo ha realizzato e ufficialmente presentato.

Un full stack che parla la stessa lingua dei qubit

Il terzo pillar della strategia quantistica di Intel è rappresentato dalla parte software e da tutti gli elementi che compongono il full stack. Compresa la compilazione dell’algoritmo “in un linguaggio compatibile con le operazioni che si fanno sui qubit” precisa Pellerano, nel concludere l’illustrazione del piano a tridente. Impegnata anche sulla crittografia quantistica, Intel non si occupa più di tanto di temi come l’Internet quantistico o, per lo meno, non ora.

“È interessante per trasmettere informazioni con alta sicurezza. Ottimo che la ricerca indaghi su questi sviluppi futuri, domande a cui trovate risposta più avanti, ma noi siamo molto focalizzati sull’arrivare a produrre e commercializzare quantum computer utili a risolvere problemi utili” ribadisce Pellerano.

All’inizio, confessa, un grosso ostacolo è stato anche quello del reperimento di risorse umane con skill adatte e voglia di scommettere sul futuro dei qubit. Oggi va meglio, anche grazie alla collaborazione con università e centri di ricerca, attraverso l’iniziativa del governo USA denominata Q-NEXT. Resta però urgente, in generale nel mondo accademico, “accelerare l’intersezione tra fisica e ingegneria, incoraggiando le persone a lavorare anche sul quantum computing. Non è un’utopia, ma un percorso concreto che oggi richiede flessibilità e largo sguardo. Sempre più persone, e aziende, iniziano a capirlo”.

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