I “fiori all’occhiello” del Made in Italy

Pubblicato il 27 Mar 2008

Il progressivo peggioramento dello scenario economico e delle previsioni di crescita del nostro Paese stanno ponendo in grande evidenza, per contrasto, le positive performance dei distretti industriali e delle imprese del Made in Italy. I segnali forti in questo senso sono visibili attraverso molti indicatori, la cui crescita è stabile da molti trimestri, in controtendenza rispetto al contesto macroeconomico. Tra i tanti indicatori, il più significativo sembra essere quello relativo alla dinamica dell’export il cui valore assoluto è stimato in 70 miliardi di Euro nel 2007, in crescita di circa il 9% sull’anno precedente (+8,7% tra il 2005 e il 2006), secondo stime del Centro studi di Intesa Sanpaolo.
Questi trend generano molti interrogativi poiché sembrano smentire quelli che vengono comunemente considerati come i principali fattori di competitività per un’impresa, ovvero la grande dimensione, le economie di scala e la presenza in settori ad elevata tecnologia. Protagonista, infatti, di queste performance positive sono piccole e medie imprese a capitale italiano, che operano in settori maturi localizzate in aree relativamente periferiche, dotate delle seguenti caratteristiche: appartengono a 8 settori produttivi tradizionali; sono organizzate in filiere produttive nelle quali operano Pmi appartenenti a sottosettori complementari; hanno un forte orientamento all’export; hanno una forte connotazione e radicamento territoriale e spesso coincidono con distretti industriali; sono distribuite in modo pervasivo nel Nord e nel Centro Italia, con qualche piccola propaggine nel Mezzogiorno.
A quali fattori, dunque, può essere fatto risalire il recupero di competività che queste imprese hanno registrato? Sono state effettuate a questo scopo innovazioni di tipo strutturale? E che ruolo abilitante, se c’è stato, ha avuto l’It? La risposta a questi quesiti ci è data dai risultati di alcune survey condotte da UnionCamere su un panel di medie imprese e dal centro studi di Intesa Sanpaolo sull’evoluzione delle imprese operanti all’interno di distretti industriali e di sistemi del Made in Italy. Entrambe queste analisi convergono nell’attribuire il miglioramento delle performance di queste imprese ad interventi innovativi effettuati contestualmente a più livelli, secondo una visione sistemica. I fattori premianti sono: il design e l’innovazione di prodotto finalizzati al miglioramento della sua qualità e alla sua caratterizzazione competitiva; la strategia di brand, al fine di associare qualità del prodotto e immagine dell’azienda; la maggiore efficienza della rete commerciale e dei rapporti con il cliente; la maggiore efficienza della logistica lungo la filiera.
Un altro asse portante di questo processo di cambiamento è stato il progressivo decentramento all’estero di alcune fasi della produzione, secondo un principio di delocalizzazione selettiva che ha consentito di mantenere in Italia le fasi a maggior valore aggiunto e più strategiche. Il fenomeno ha oggi dimensioni rilevanti se si considera che il 10% circa delle medie imprese ha stabilimenti produttivi all’estero e un altro 10% ha rapporti stabili di fornitura con aziende estere.
La conseguenza più rilevante dei processi di delocalizzazione e internazionalizzazione degli approvvigionamenti e delle vendite è che le imprese si trovano ad operare all’interno di filiere articolate su reti lunghe e non più di prossimità, ovvero con fornitori e clienti non più localizzati all’interno dello stesso territorio, ma in aree remote.  Le imprese del Made in Italy si collocano all’interno di questo trend con valori anche superiori a quelli medi: il 15% delle imprese della meccanica ha mediamente attività produttive all’estero e il 22% delle imprese del sistema moda e della meccanica ha fornitori strategici all’estero (vedi figura 1).


Figura 1: L’internazionalizzazione delle imprese del Made in Italy (fonte: Tedis)

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L’insieme di questi interventi innovativi è stato supportato da una robusta iniezione di tecnologie e di soluzioni Ict che ne hanno costituito l’infrastruttura abilitante.
Le evidenze più importanti che queste analisi hanno messo  in luce sono due. La prima è che il recupero di competitività attraverso innovazioni multilivello e sistemiche non è un fenomeno generalizzato a tutte le imprese del Made in Italy, ma solo ad una parte di esse. La seconda evidenza è che le imprese che hanno saputo adottare strategie innovative, non solo hanno potuto reagire alle minacce che ne mettevano in discussione l’esistenza, ma sono cresciute molto di più di quelle che hanno difeso in modo conservativo la loro posizione sul mercato.
C’è un’indicazione importante che dobbiamo trarre da tutto questo, ovvero che l’interpretazione classica che vedeva le grandi imprese più innovative delle Pmi e i settori tradizionali come poco innovativi, è sempre meno valida. In realtà la linea di confine che si sta stabilendo è tra imprese che innovano e imprese che non innovano, indipendentemente dalla loro dimensione e dal loro settore di appartenenza e dal territorio in cui sono localizzate. E, in questa dinamica, sono le medie imprese ad essere più innovative e maggiormente propense ad investire in It; perché hanno le stesse problematiche competitive e di organizzazione dei processi delle grandi e perché non sono vincolate da sistemi legacy. Le imprese industriali innovative costituiscono un esempio paradigmatico delle tendenze sopra descritte. Le scelte di internazionalizzazione e delocalizzazione produttiva costituiscono sempre più spesso una scelta obbligata sia per trovare nuovi mercati di sbocco che per rendere competitivi i processi produttivi e si traducono in una maggiore complessità delle catene logistiche, che devono connettere mercati, siti produttivi e logistici sempre più dispersi. L’It può supportare queste sfide con investimenti che aiutano l’azienda a gestire processi sempre più globali (Erp, Plm, tecnologie per il collaborative manufacturing ed applicazioni a supporto della logistica).
Per quanto riguarda, invece, il contesto competitivo e della domanda, la tendenza è verso una maggiore complessità e maturità dei consumatori, all’interno di una competitività crescente, con tutto ciò che ne deriva in termini di time-to-market e di customer satisfaction. Da qui derivano investimenti in Crm, Bi e marketing 2.0, basato sull’utilizzo di strumenti web interattivi ma anche a supporto dei processi produttivi e logistici per rendere rapidamente operative le scelte di marketing.
Infine, non va trascurato il fatto che molte aziende industriali hanno effettuato o stanno effettuando operazioni di acquisizione e fusione con le relative conseguenze in termini di It consolidation e revisione dei processi It. La questione che si pone a questo punto e che sembra essere essenziale per un recupero di competitività e crescita del Sistema Paese è quali politiche adottare per trasferire cultura, strumenti e percorsi per l’innovazione alle imprese conservatrici e in ritardo, che perseguono ancora e soltanto azioni finalizzate all’aumento dell’efficienza e della produttività attraverso un semplice taglio dei costi.

* Giancarlo Capitani è amministratore delegato della società di ricerche di mercato NetConsulting, tel 02.4392901, capitani@netcons.it

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