Esperienza immersiva e sala ologrammi. Ecco il futuro di libri e biblioteche

Incontro con il direttore del progetto BookServer presso Internet Archive di San Francisco e riconosciuto guru di cultura prima ancora che di tecnologia nell’editoria digitale. Peter Brantley (nella foto) ci guida “verso le nuove frontiere per l’editoria, e i nuovi luoghi dove il sapere lo si produce oltre che consumarlo”

Pubblicato il 17 Apr 2011

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Peter Brantley, direttore del progetto BookServer presso Internet Archive (biblioteca digitale non profit di San Francisco) e riconosciuto guru di cultura prima ancora che di tecnologia nell’editoria digitale è il protagonista dell’incontro che si è svolto pochi giorni fa in un quadro che coniuga tradizione e innovazione, la Mediateca S. Teresa, dipartimento di editoria digitale della Biblioteca Nazionale Braidense di Milano. Con la ‘lecture’ di Brantley “entriamo nel tempio delle biblioteche del futuro cavalcando la grande rivoluzione in atto del libro digitale”, come ha detto Maria Grazia Mattei di Mgm Communication, moderatrice (e animatrice) dell’evento.
Brantley nel far da guida “verso le nuove frontiere per l’editoria, e i nuovi luoghi dove il sapere lo si produce oltre che consumarlo”, procede per metafore, nel suo speculare sul futuro delle biblioteche centrato sul concetto di ologramma verso cui evolve l’e-book, e di sala ologrammi (holodeck, luogo di User Experience immersiva, mutuato dalla celebre saga televisiva Startrek), cui vede approdare le Biblioteche “entro un decennio”. Il suo è un affresco (per definizione) speculativo, ma ben articolato in tre passi: una carrellata sulle intuizioni e visioni precorritrici; una sintesi delle tecnologie stato dell’arte per gli ologrammi; un quadro dei grandi temi sul tappeto con l’avvento del nuovo luogo del sapere ossia “reingegnerizzazione” della cultura, impatti sulla proprietà intellettuale, evoluzione delle figure professionali implicate, tensione fra grandi corporation e comunità per il “controllo del ponte”.

Figura 1 – La produzione del sapere nel progetto BookServer presso Internet Archive
(cliccare sull’immagine per visualizzarla correttamente)

L’idea di esperienza immersiva, i prodromi
Con il libro “Il mondo fatto dai bambini”, lo scrittore Ray Bradbury, quando in Usa decollava la prima televisione in bianco e nero, immaginava l’impatto sulla famiglia di un’esperienza immersiva. È il 1950, un oggetto giocattolo fa apparire sulle mura della stanza una savana africana, riprodotta fedelmente a colori fino all’ultimo sasso e filo d’erba, sole e cielo azzurro a soffitto, odori e suoni del galoppo delle antilopi inseguite dai leoni. C’è poi “The ultimate display”, 1965, di Ivan Sutherland, pioniere di Internet: il display “supremo” è una stanza all’interno della quale il computer, grazie all’utilizzo di avanzate tecnologie tridimensionali, può addirittura “controllare” la materia: “una sedia ivi proiettata è buona per sedersi, delle manette per ammanettare, una pallottola per uccidere”. In queste visioni Brantley legge il bisogno umano di immergersi nell’esperienza alla ricerca dei sentimenti comunicati, inseguendo l’ancestrale fascino del racconto di storie attorno a un fuoco.
Il motore è il bisogno di rivivere storie, come ancora Socrate faceva notare a Platone: “i segni della scrittura sono un ricordo ‘esterno’, una medicina non per la memoria di una storia, ma per il suo richiamo”. È il bisogno di ricreare la storia che diventa trend, probabilmente inesorabile, all’esperienza immersiva, man mano che l’immersione è sempre più abilitata dalla tecnologia. Proprio perché riprodurre una storia leggendo un libro è un recupero solo parziale, e da sempre l’esperienza umana di story telling è di tentare anche di ricrearla (vederla, cantarla, danzarla, agirla teatralmente). Nel museo di Bali, Indonesia, c’è il Lontar, una collezione di foglie di palma rilegate, ciascuna intarsiata con uno strumento appuntito; il Lontar non deve venir letto, va “agito” da uno o più attori o danzatori che si prestano a farlo. Internet Archive sta digitalizzando i Lontar, con e-book multimediali, in cui le storie trasmesse dai Lontar avvicinano meglio la riproduzione “immersiva” e l’“ascolto” con tutti i sensi.

Tecnologie stato dell’arte per gli ologrammi
Già nel 2011 allineiamo vari “pezzi potenzialmente assemblabili in sala ologrammi”, dice Brantley: una proiezione 3D molto avanzata (vedi Avatar) e il suono avvolgente (surround), con un’alta fedeltà che fa “vivere” un’esperienza prima inimmaginabile. Esperienze di teleimmersione: un progetto della University of California – Berkeley, e di University Research Council della Western Illinois University riprende soggetti che danzano in locazioni remote e “li fa danzare in un’esperienza virtuale comune”; e soluzioni commerciali di telepresence aziendale riuniscono in alta fedeltà presenze da aree disparate in un singolo spazio virtuale per i meeting. L’augmented reality arricchisce l’informazione su dispositivi mobili. La “gesture detection” [tecnologia che consente di interpretare la gestualità del corpo umano attraverso algoritmi matematici ndr], con accelerometri sui cellulari e la “machine vision” [apparati che, attraverso l’analisi delle immagini, consentono di eseguire movimenti, azioni ecc.] , ormai relativamente diffusa, abilitano i computer a vedere, percepire il movimento, interpretarlo e reagirvi. I primi ad utilizzare queste tecnologie sono stati i giochi a ingaggio fisico, che “condizionano” a muovere il corpo davanti a un computer e ad aspettarci che il computer risponda. E poi c’è la sala ologrammi virtuale, creata da Google: un insieme di schermi di proiezione circonda l’utente e simula un ambiente stradale nel quale può camminare in modo coinvolgente.

L’editoria in sala ologrammi, basata sulla comunità e le sue criticità
Certo, per le biblioteche così come sono si profila un “futuro di ridondanza e alla fine di rimozione dal tessuto della comunità”, così la pensa Edi Neiburger, bibliotecario dell’Università del Michigan che collabora con Brantley. “A meno che, naturalmente, non si trasformino da luogo dei dati per la comunità – che Internet disintermedia – a luogo delle creazioni della comunità che dà agli utenti accesso a strumenti di produzione, e una casa permanente online, non commerciale, per i loro lavori creativi”. Lo sbocco è una “Biblioteca editrice”, piattaforma in cui la Comunità pubblica se stessa, si riconosce: la sala ologrammi come “nuova editoria interattiva” basata sulla comunità, di cui diventa espressione individuale e luogo di sinergie di idee.
Brantley non nasconde la valanga di decisioni da prendere e problemi da superare, su cui ha “opinioni, non risposte”: “Le esperienze vengono registrate per essere conservate? Sono effimere o recuperabili? Hanno identificatori persistenti (per cui si può venir identificati, e se sì da chi)? Viene abilitato il riuso, come semplice playback, o per modifiche? Che ne è della proprietà intellettuale e della privacy in sala ologrammi? Chi è l’Autore, il Programmatore che crea o contribuisce al programma? Oppure i pezzi visivi, sonori e di testo, presi da una o più persone, sono dei Partecipanti che li hanno generati? E che farà lo Stato (che può essere democratico o tirannico) per la governance di una rete di sale ologrammi, per vedere, controllare, registrare le esperienze che i suoi cittadini disegnano?”.
Possibilista su tutta la ridda di ipotesi sulle questioni precedenti, Brantley è invece schierato su di chi sia il compito di “costruire le sale”: delle corporation o delle comunità? “Non ci vuol molto a immaginare un’esperienza di ologrammi fornita da Apple iDeck con iTunes, o da Google Android Holodeck.App, o da Amazon 1-click Holodeck”. Ma il “controllo” della sala ologrammi, ponte di comando della letteratura digitale e della cultura, dovrà essere della Comunità-Biblioteca, perché in essa c’è “il punto d’ingresso a nuovi tipi di immaginazione, di apprendimento, di condivisione e di esperienza, a una sorta di nuova forma di poesia espressiva”, dice il guru. Tutte “le” Comunità, raccomanda, condividano la visione di un “crowdsourcing deck”, alleanza di Biblioteche collaboranti in modalità open e web 2.0. È il manifesto di una sala ologrammi aperta e condivisa, perché appunto ognuno padroneggi le esperienze che crea. “Per questo obiettivo vale la pena di combattere: avere e presidiare il controllo della propria sala di produzione oltre che di consumo del sapere”, conclude Brantley.

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