Abbiamo scelto di analizzare lo stato e le prospettive digitalizzazione della pubblica amministrazione attraverso le tre aree in cui idealmente quest’anno il Forum Pa si articola: la riforma della PA, in cui si analizzano i nuovi modelli di amministrazione per tenere conto dei cambiamenti della tecnologia e della società; la PA per lo sviluppo, in cui verificheremo la presenza di una nuova politica economica e industriale per l’innovazione, lo sviluppo, l’occupazione; PA e tecnologia, dove si analizzerà la strategia e i passi compiuti per costruire una vera cittadinanza digitale per cittadini e imprese. Obiettivo di questo articolo è evidenziare alcuni aspetti che ci sembrano emblematici delle criticità o che cogliamo come segnali positivi.
Nuovi modelli di amministrazione in una società che cambia
La madre di tutte le riforme è la riforma Madia (Legge 7 agosto 2015 n.124), che incide sulla riorganizzazione delle amministrazioni e della dirigenza, sulla necessità di uno Stato partner del cittadino e dell’impresa, di un’amministrazione condivisa e dell’open government.
“Quale amministrazione è adeguata per una situazione, come l’attuale, di grandi cambiamenti, che vede riforme continue in tutti i settori? Quali modelli adottare? – si chiede Carlo Mochi Sismondi, presidente di FPA, anticipando alcuni temi che saranno al centro dei dibattiti del Forum – Si tratta di capire quali siano i percorsi per l’affermazione di un nuovo paradigma che veda il cittadino al centro, co-produttore di servizi e non solo fruitore, e quali siano gli ostacoli da superare”.
La riforma, con il nuovo Cad (Codice dell’Amministrazione Digitale) appena approvato, gli 11 decreti legislativi già emanati e altri che arriveranno a fine maggio, pone grandi temi di cambiamento. “Fatte le leggi siamo solo all’inizio del percorso: il tema diventa quali azioni di accompagnamento all’innovazione sviluppare, come favorire il cambiamento dei comportamenti, visto che non sempre anche le migliori leggi vengono applicate nel modo corretto”, osserva Mochi Sismondi.
Se si ammette che la missione istituzionale di ogni PA sia la creazione di “valore pubblico” a favore dei propri cittadini, la valutazione della performance e del conseguimento degli obiettivi diventa una necessità imprescindibile che impone di superare la logica autoreferenziale delle amministrazioni.
Enrico Deidda Gagliardo, Direttore del Master Universitario “Perf.Et”, Università degli Studi di Ferrara, uno degli esperti chiamati a contribuire alla riforma, ricordando il fallimento dei modelli di valutazione fin qui utilizzati, confermato dalla bocciatura della Corte dei Conti, sottolinea che la cultura della valutazione non si crea per legge, ma richiede percorsi di lungo periodo: “L’approccio alla riforma è stato di tenere conto delle esperienze precedenti, anche a partire da cosa non ha funzionato”, aggiunge, ripercorrendo le difficoltà della riforma Brunetta che proponeva due livelli di valutazione: organizzativo (dell’Ente e delle sue parti) e per gli individui. “La criticità di quella scelta deriva soprattutto da un modello valutativo uguale per tutte le PA, i comparti e le diverse dimensioni, mentre a mio parere, la valutazione andrebbe ripensata prevedendo la contestualizzazione”. Il raggiungimento dei due livelli di performance (organizzazione e individuale) è condizione necessaria ma non sufficiente perché l’amministrazione faccia il suo dovere. Secondo Deidda, questi devono essere inseriti in una visione d’insieme per avere impatto sul benessere dei cittadini e della collettività a partire da obiettivi definiti avendo capito i reali bisogni (valore pubblico). La verifica del conseguimento presuppone da un lato di utilizzare strumenti di dialogo con i cittadini per definire gli obiettivi e dall’altro la realizzazione di un sistema di valutazione nazionale indipendente, con linee guida omogenee, per garantire la comparabilità, ma che preveda spazio per la contestualizzazione per comparto e per dimensione.
“Gli strumenti di controllo e valutazione delle performance a oggi sono manuali o informatizzati in modo eterogeneo – sostiene Deidda – Il mio sogno sarebbe un portale centrale e portali periferici nei siti delle amministrazioni che consentano di inserire in modo facile le performance e che, grazie alla condivisione dei dati in cloud, li renda disponibili in tempo reale al regista della funzione pubblica che potrà fare il tuning delle politiche sulla base dei dati periferici opportunamente rielaborati”, dice Deidda, che prosegue: “Ma oggi è pura fantascienza non certo per carenze della tecnologia quanto per i limiti di capacità di assimilazione dell’innovazione da parte della PA. Andrebbero create condizioni facilitanti, per aumentare la capacità delle persone di utilizzare gli strumenti digitali, in una situazione dove 3,5 milioni di dipendenti ha età media superiore ai 50 anni”. Oppure usare strumenti facili come le app che anche gli ultracinquantenni che chattano con whatsapp utilizzano quotidianamente.
Costruire una vera cittadinanza digitale per cittadini e imprese
Per costruire una vera cittadinanza digitale, per cittadini e imprese, è necessaria un’evoluzione informatica della PA che abbia un impianto strategico unitario, capace, al tempo stesso, di tenere conto del lavoro che l’ha preceduto. “La linea evolutiva di Agid intende riprendere, integrare e aggiornare alcune buone idee che vengono da altri esperti che hanno rivestito responsabilità simili o attinenti in passato, quali Franco Bassanini, Alessandro Osnaghi e Alfonso Fuggetta”, dichiara Stefano Quintarelli, presidente del Comitato di Indirizzo Agid e deputato, che indica i punti più qualificanti approvati dal comitato:
1) l’integrazione delle applicazioni in un framework di accesso utente centralizzato; parliamo di Italia Login (vedi Web e cittadini protagonisti della PA digitale su www.zerounoweb.it) che garantisce l’integrazione delle applicazioni della PA in un unico contesto coerente in termini di esperienza utente e usabilità;
2) l’introduzione della categoria delle infrastrutture immateriali, che rappresenta uno degli aspetti più innovativi per accelerare e rendere più efficiente lo sviluppo delle applicazioni, mettendo a fattor comune componenti che tutte le applicazioni usano (autenticazione, pagamenti, incassi, documenti, ecc.) e servizi comuni (sicurezza, archiviazione, ecc.);
3) la ripresa con forza della cooperazione applicativa realizzata tramite Api, che diventano i connettori informatici tra diverse funzioni applicative;
4) la possibilità di accesso da parte dei privati che potranno realizzare servizi integrando l’offerta delle PA;
5) la definizione di ecosistemi per domini applicativi, come salute, giustizia, scuola, cultura, turismo ecc.
L’aspetto interessante è che si riscontra una coerenza con questo modello nei diversi ambiti. Nella legge di stabilità, ad esempio, il risparmio nei costi di gestione dell’informatica pubblica nel triennio è abilitato dalle infrastrutture immateriali. Nella riforma del Cad si prevede, nella delega data al Governo, l’accesso dei privati alla rete delle amministrazioni pubbliche e anche alle Api, consentendo loro di realizzare applicazioni usando i servizi esposti dalle amministrazioni. Il problema principale resta, non certo a causa delle tecnologie, il tempo necessario per “mettere a terra” questi progetti. “Per come è strutturato un procedimento democratico e per le garanzie che deve assicurare un processo realizzato dal pubblico (soprattutto in un sistema basato sulla civil law e con il diritto amministrativo), fare una norma e implementarla richiede anni”, sostiene Quintarelli, che tuttavia non auspica che gli appalti vengano assegnati “per le vie brevi”.
Un esempio dei tempi lunghi è la gara di appalto per l’affidamento dei servizi cloud, di sicurezza, di realizzazione di servizi on-line e di interoperabilità pubblicata a dicembre 2013 e non ancora assegnata. Lo sarà, se tutto va bene entro il 2016. L’accelerazione può in parte venire dal ruolo dei privati. “L’approccio che prevede infrastrutture immateriali, ecosistemi applicativi, “spinotti” per le applicazioni (Api) sarà funzionale ad accelerare lo sviluppo di applicazioni creando opportunità per imprese, che si traducano in ulteriori servizi per i cittadini – spiega Quintarelli – Le amministrazioni dovranno continuare a occuparsi in esclusiva del backend e dei servizi esposti, ma ulteriori servizi all’utenza potranno essere realizzati anche da privati (non tutti, certamente; ci saranno questioni di sicurezza e andranno fatte delle riflessioni specifiche)”, che sono liberi dai vincoli delle pubbliche amministrazioni e potranno inserire le proprie applicazioni web in una unica cornice di accesso semplificato. “Questo potrà in alcuni casi mitigare l’effetto di amministrazioni che procedono inevitabilmente a diverse velocità”.
Una nuova politica economica ed industriale per l’innovazione, lo sviluppo, l’occupazione
“La digitalizzazione della PA e un governo dei processi che faciliti l’accesso a imprese e a cittadini sono fra gli strumenti più importanti per favorire lo sviluppo”, sostiene Maria Ludovica Agrò, Direttore Agenzia Coesione Territoriale, di recente costituzione con l’obiettivo strategico di fornire supporto all’attuazione della programmazione comunitaria e nazionale e svolgere attività di monitoraggio degli investimenti. “La missione dell’Agenzia è mitigare il divide che oggi deriva in gran parte dalla mancanza di accesso digitale. Questo tema è da tempo presente a livello UE che ha messo al centro i temi dell’accesso per ben due cicli di programmazione economica della coesione [programmi specificatamente destinati all’obiettivo della coesione, ossia di uno sviluppo armonioso dell’Unione Europea, ndr], visto come strumento per superare distanze fisiche e culturali”, aggiunge.
La politica di coesione mette a disposizione molte risorse per la realizzazione di banda larga e ultralarga nel periodo 2014-20: 2,7 miliardi di euro provengono dai programmi operativi regionali e nazionali a cui si aggiungono risorse da quantificare sui singoli programmi, come 400 milioni per la scuola digitale e altrettanti per le smart city; sono previste risorse aggiuntive che derivano specificatamente dai programmi di coesione di 2,2 miliardi per la banda ultra larga. In questo contesto l’Agenzia fornisce un servizio di raccordo e supporto alle amministrazioni titolari delle risorse (regioni e Mise – Ministero dello Sviluppo Economico). “Questa attività si concretizza nel supporto alla creazione di piani dedicati che seguano logiche coerenti, orientando bandi e risorse verso le traiettorie di sviluppo considerate più promettenti – spiega Agrò – Viene svolto anche un monitoraggio costante pro-attivo per rilevare le criticità e verificare che i progetti vadano nella giusta direzione”.
Un ulteriore impulso per la connettività e la diffusione dell’accesso alla rete viene dal progetto ‘smart infrastructure’. Qui si parla di infrastrutture come strade, ferrovie, porti che diventando intelligenti, possono portare vantaggi alla gestione ma anche favorire lo sviluppo economico e la nascita di nuovi servizi e nuovi soggetti imprenditori. “Il progetto nasce dalla considerazione che il costo della tecnologia all’interno di un’opera, come per esempio un viadotto, è incredibilmente basso rispetto ai costi globali dell’infrastruttura. Ma non è questione di sistemare qualche sensore o stendere metri di fibra ottica; serve un approccio sistemico, che stabilisca gli standard funzionali [basilari, per esempio, per favorire lo scambio di informazioni, ndr]”, spiega Mario Nobile, Direttore sistemi informativi e statistici del Ministero delle infrastrutture. Per questo è previsto entro maggio l’incontro, con gli interlocutori istituzionali come Anas, Rfi, Enac, concessionarie autostradali, autorità portuali, dove verranno coinvolti anche operatori Telco e It, per condividere gli standard e verificare il livello di apertura dei servizi. Una volta installati i nuovi sistemi di connessione, potranno infatti facilitare la gestione delle infrastrutture stesse, abilitare nuovi servizi da parte dei soggetti concessionari di servizi dello Stato, ma anche da parte di soggetti diversi che potranno accedere anche a titolo oneroso alle banche dati. “Personalmente ho una visione molto aperta di cluster e di connessioni, pensando soprattutto alle opportunità per le startup che possono nascere per offrire servizi”, sottolinea Nobile.
Da questi esempi si delinea un nuovo ruolo del soggetto pubblico che dovrà sempre più tenere conto anche dell’affermarsi della share economy, come ricorda Gianni Dominici, Direttore Generale di FPA, portando ad esempio le città. “Il trasporto pubblico nelle città viene integrato da servizi promossi da privati come il car, il bike, lo scooter sharing, a cui concorrono sia aziende consolidate con grandi investimenti sia piccole iniziative di startup. Allargandosi la forbice fra i bisogni che crescono e le risorse che si riducono, si aprono opportunità sempre più ampie per nuove iniziative”. In alcuni casi si genera business in altri si attua una logica di sostegno o peer-to-peer come nel caso di BlaBlaCar che grazie alla condivisione riduce i costi di viaggio in auto con benefici anche per l’ambiente.
“Il ruolo della PA, dovrebbe essere non solo di soggetto regolatore, come nel caso della proposta di legge sulla sharing economy [1] ma anche soggetto attivo e abilitante, fare in modo che queste forze vitali trovino le condizioni per crescere, creando un ambiente favorevole per la nascita di start up e di nuove iniziative – aggiunge Dominici – La PA dovrebbe acquisire i modelli tipici della share economy anche per contrastare la logica dei tagli lineari a favore della razionalizzazione dei costi, grazie alla condivisione delle risorse”.
(1) “Disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e disposizioni per la promozione dell’economia della condivisione” più nota come legge sulla sharing economy, presentata da parlamentari di maggioranza e di opposizione, ha iniziato il percorso di discussione il 4 maggio nelle commissioni riunite Trasporti e Attività produttive, mentre il testo è disponibile on line per commenti fino al 30 maggio.