Un mondo complesso, di incertezze e rischi. Ottimo per il business!

La situazione attuale è indubbiamente caratterizzata dalla complessità interna all’impresa, alle organizzazioni e nel rapporto tra queste e i propri fornitori e clienti. Non va però vista solo la parte problematica di questo scenario, suggerisce Stefano Uberti Foppa, direttore di ZeroUno, ma compiendo uno scatto mentale e comportamentale, vanno trovati i giusti approcci e linguaggi per ricavare gli elementi distintivi attraverso i quali l’azienda riesce a farsi riconoscere sul mercato.

Pubblicato il 07 Nov 2007

stefano

Se la complessità diventa, come sta diventando, l’elemento di riferimento dell’azione dell’impresa sul mercato, l’elemento dal quale, attraverso un’adeguata interpretazione, si riescono a cogliere opportunità di sviluppo, ecco che il tutto gravita attorno ad un elemento imprescindibile: la persona. E più persone tra loro correlate fanno un’organizzazione che lavora secondo modalità e processi che distinguono, nel valore che riescono a trasferire al mercato nei prodotti e servizi che propongono, l’azienda dai propri competitor.
Il quadro è quindi, senza dubbio, quello della complessità. Una complessità interna all’impresa e nel rapporto tra essa e i propri fornitori e clienti; una complessità che si estende alla necessità di dare risposte coerenti (o di precedere) a una variabilità continua della domanda; una complessità che passa attraverso l’estensione del business a mercati geograficamente e culturalmente distanti che si devono integrare (sia come nuove persone parte dell’organizzazione aziendale sia come mercati di sbocco) nella sfera di attività tradizionale dell’impresa. Una complessità fatta di scadenze, fusioni e acquisizioni, scarsità di tempo e di budget, reperibilità di competenze laddove queste servono, livelli qualitativi di supporto e di servizio che qualificano sempre di più l’impresa oggi e che non è semplice erogare nella modalità pretesa dai consumatori. E mille altri problemi.
Se però vediamo solo e soltanto la parte problematica di questo scenario, vuol dire che non abbiamo ancora compiuto quello scatto mentale e comportamentale che invece il business oggi impone. Quello cioè di trovare i linguaggi e gli approcci corretti per ricavare dalla complessità gli elementi distintivi attraverso i quali l’azienda viene riconosciuta dal mercato.
Se, come abbiamo prima detto, l’elemento di snodo della complessità gravita attorno alla qualità della persona, ecco che, mai come oggi, la sua capacità decisionale rappresenta il momento di massimo valore per l’azienda, cui segue immediatamente la capacità realizzativa (organizzazione e processi), cioè la capacità di portare ad elemento distintivo dell’impresa la capacità decisionale e operativa del singolo.
In questo scenario assumono quindi una rilevanza più che strategica le informazioni, intese come elementi centrali di riferimento per riuscire a prendere decisioni appropriate, nonché strumenti per “navigare nella complessità”, passando da un’attività individuale ad una dimensione organizzativa estesa centrata sulla conoscenza diffusa in tutte le principali aree operative dell’azienda.
La premessa per parlare di valore delle informazioni, della conoscenza, della business intelligence, riguarda quindi la capacità della persona. Riteniamo che abbia senz’altro senso ragionare su un disegno architetturale tecnologico nonché di processo per diffondere, laddove serve, un utilizzo abituale delle informazioni utili al supporto decisionale; ma pensiamo anche che il tutto potrebbe essere vanificato dalla mancanza di valore intellettuale (cioè disponibilità al cambiamento, capacità a considerare molteplici fattori, voglia di mettersi in gioco, senso di squadra, logiche collaborative, ecc,) degli individui. E questo ad ogni livello dell’impresa.
Una recentissima ricerca dell’Economist Intelligent Unit (sponsorizzata da Business Objects), realizzata su un campione di 154 senior executives nel mondo, punta ad indagare i meccanismi decisionali dell’area executive dell’impresa all’interno di contesti di mercato e organizzativi che vedono la complessità come elemento di riferimento costante. A premessa dello studio si evidenzia un aspetto centrale: l’estrema importanza della capacità, tutta umana, di saper soppesare gli intagibles e le ambiguità e che l’eccessiva meccanizzazione del processo decisionale può anche svilire lo spirito imprenditoriale.
Siamo, a nostro avviso, alle radici del problema. Muoversi in ambienti complessi significa saper discernere, saper guardare al contesto talvolta da prospettive differenti, saper inquadrare, soppesare il dato all’interno dello scenario di riferimento. Significa, in altre parole, sviluppare quella capacità di analisi e ragionamento che nessuno strumento saprà mai dare.
Allora andiamo avanti con il problema della complessità e della necessità di saper prendere decisioni giuste nel modo e al momento giusto. Come fare? Che gli imprenditori, quelli italiani soprattutto, preferiscano affidarsi al fiuto che alla tecnologia è abbastanza noto. E lo stesso studio conferma che le decisioni strategiche che connotano le attività dell’azienda, vengono spesso prese attraverso una elevata percentuale di intuizione, accettazione del rischio, voglia di innovare. Ma questo non può essere una giustificazione alla mancanza di metodologie di lavoro e strumenti di analisi da parte dell’organizzazione aziendale nella sua interezza. L’azienda e le persone che la compongono, si distinguono dalla concorrenza nel momento in cui riescono a razionalizzare, a strutturare dei processi che basino sulla fruibilità delle informazioni la propria capacità operativa. E’ nei livelli di management, nei contatti a monte (partner della supply chain) e a valle (clienti) che l’impresa deve sapere mettere in campo un’organizzazione meno intuitiva e più “intelligence-oriented”, lasciando al top management, oltre all’intuizione imprenditoriale, quegli strumenti di sintesi su cui supportare dei ragionamenti strategici. E comunque spingendo una cultura della tecnologia sempre più “business oriented” che induca anche gli executive a “contaminare” la propria istintualità di imprenditore con un più sicuro confronto sulle informazioni disponibili.
Tutto ciò non si raggiunge se la persona, il singolo, non accetta di integrarsi in un contesto organizzativo orientato alla conoscenza ma del quale egli è, indipendentemente dalla sua funzione, parte attiva e in grado di fruire nel modo più opportuno delle informazioni disponibili. “E’ essenziale – dice ancora il report dell’Economist – costruire una fiducia e una prassi nell’utilizzo della tecnologia e nella circolarità dei dati in azienda, anche se si tratta di un progetto a lungo termine”. In questo, neanche a dirlo, è il Cio che nell’evoluzione del proprio ruolo, dovrà sviluppare una capacità di erogare non solo applicazioni agli utenti aziendali, ma “parecchia formazione e servizi” in modo tale che sempre di più gli utenti sappiano adattare l’utilizzo della tecnologia ai propri bisogni di lavoro e di business.
Non c’è altra strada che ci dica “come fare”. Anche se i problemi sono numerosi: scarsità di tempo da dedicare all’analisi; dati forniti non in modo preciso e tempestivo: solo il 10% del campione di indagine dell’Economist ammette che le informazioni utili a prendere decisioni sono disponibili quando servono; oltre un terzo dei rispondenti all’indagine afferma di disporre dei dati giusti dopo un lungo ritardo o talvolta di non averli affatto. C’è poi il problema opposto della grande quantità di dati disponibili (che al 46% dei rispondenti causa un netto rallentamento nelle decisioni da prendere). Per non parlare della qualità dei dati di partenza, un problema che sempre di più, con il diffondersi della business intelligence, assume connotati davvero preoccupanti. Ma la risposta al “come fare”, si diceva, può passare soltanto dalla volontà di cambiare cultura e atteggiamento delle persone, dalla scelta di voler trovare le strade per trasformare la complessità in tante opportunità di sviluppo. E in questo gioco, le informazioni sono l’elemento primario.
“Il business è un mondo di incertezze e rischi” afferma lo studio in un suo passaggio. Ma riafferma anche con forza che in questo contesto, se si vuole creare valore e business per l’impresa, bisogna accettare che convivano due anime, parte della stessa persona (e impresa): da un lato le scelte sia strategiche sia operative si basano oggettivamente su una percentuale di informazioni parziali che causano, giocoforza, errori; è fisiologico (e forse non del tutto negativo) nell’attività quotidiana dell’azienda. Ma dall’altro lato alle aziende serve anche… “raise the bar”, alzare il livello. E cioè accanto all’imponderabilità e all’imprevedibilità, è necessario aumentare una migliore comprensione del contesto e degli input provenienti dall’esterno verso l’azienda. E da questi saper derivare le decisioni più appropriate.

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