Smart Cities nella smart country

Ripensare le città in un’ottica smart sta diventando una necessità; oltre metà della popolazione mondiale vive infatti ormai in aggregazioni urbane. Ma cosa si intende per città intelligente dal momento che questa definizione indica le più svariate attività e applicazioni? E attraverso quale percorso e con quale supporto dell’It anche le città italiane possono diventare smart? Il gruppo di lavoro “Smart cities nella smart country: ripensare in digitale le città e la cittadinanza” ha cercato di dare risposta a queste domande identificando modelli di riferimento e di integrazione delle esperienze che, pur in modo frammentato, si sono sviluppare sui territori.

Pubblicato il 05 Dic 2013

Il tema smart city è diventato uno dei focus primari della Comunità Europea, prendendo atto che la maggior parte degli investimenti in tecnologia e innovazione sono concentrati sulle amministrazioni centrali (l’Italia non fa eccezione) con un sensibile divario rispetto a quanto viene investito per rendere più vivibili, efficienti e intelligenti le città dove vive ormai oltre il 50% della popolazione mondiale. Partendo da questo dato, il City Protocol (1) evidenzia come Internet abbia cambiato le nostre vite ma non ancora le nostre città.
Per focalizzare il dibattito, il gruppo di lavoro “Smart cities nella smart country: ripensare in digitale le città e la cittadinanza” è partito proprio da alcune evidenze emerse dal City Protocol, prima fra tutte la necessità di un ripensamento complessivo delle città che ha portato alla creazione di nuove comunità fra le città. È il caso di C40Cities, associazione realizzata dalle prime 40 città a livello mondiale (che raccolgono l’8% della popolazione e il 21% del Pil mondiale) con l’obiettivo di definire modelli comuni. Il primo passo è stato capire quali siano gli ambiti decisionali delle città attraverso un’indagine. Questa ha evidenziato che l’87% delle amministrazioni decide su strade e parcheggi, l’80% sull’illuminazione pubblica (area in cui si possono realizzare sinergie con altri servizi), il 63% sui trasporti, il 60% sulla gestione dell’acqua, il 57% sulla raccolta di rifiuti, il 50% nella definizione dei piani regolatori. Tutti ambiti nei quali la tecnologia può contribuire in modo determinante sia all’ottimizzazione delle risorse, scarse, disponibili sia a una maggiore efficienza dei servizi sia alla fornitura di servizi nuovi e innovativi.
La rilevanza internazionale del tema sta sensibilizzando anche i decisori italiani che si stanno convincendo della necessità di rendere più intelligenti le nostre città; una riflessione indispensabile e urgente nel momento in cui i budget si riducono, rendendo necessario far convergere le risorse dei diversi settori.
L’obiettivo del City Protocol è la costruzione di un modello di riferimento basato sulla collaborazione a livello internazionale fra città, università e fornitori di tecnologia per costruire una scienza delle città. Il modello City Protocol prevede un’organizzazione che include le figure di riferimento nei diversi settori di cui si occupano le città, sotto la guida di un coordinatore, affiancato da un responsabile dei Sistemi informativi, visto come figura trasversale a indicare che l’It dovrebbe facilitare la gestione della città per farla diventare intelligente.

Gli attori delle città: rapporto pubblico-privato
Ma per funzionare, il modello deve includere tutti, non solo gli attori interni all’amministrazione, visto che nella realtà, come evidenzia Major Cities (2), la maggior parte delle città prevede una gestione dei servizi che coinvolge anche aziende private. In Italia, a differenza degli altri paesi, si assiste alla presenza, nella maggior parte dei Comuni, di aziende partecipate dall’amministrazione stessa (con diverse quote che spesso arrivano al 100%) a cui viene delegata la gestione dei principali servizi, come trasporti urbani, progetti culturali, raccolta dei rifiuti, programmazione, raccolta tasse, acqua, energia.
Un censimento realizzato nel 2012, a cui hanno aderito il 67% dei Comuni (praticamente tutti i maggiori con più di 30mila abitanti), ha contato oltre 33mila partecipate, metà delle quali nate negli ultimi 10 anni, con un costo di gestione complessivo di circa 7,5 miliardi di euro l’anno.
A queste aziende, nel 2011, è stato esteso il Codice dell’Amministrazione Digitale (Cad), che prevede un loro adeguamento su temi quali il sistema di pagamento unico, l’identificazione del cittadino per comunicare in modalità digitale, le infrastrutture, il riuso del software. Ulteriori passi in direzione della digitalizzazione e dell’aumento di efficienza sono stati, a fine 2012, l’istituzione delle Comunità intelligenti (insieme di persone, generalmente appartenenti ad amministrazioni o soggetti locali, con esigenze condivise che cercano soluzioni, basate anche su strumenti digitali, a tematiche socio ambientali, quali mobilità, sicurezza, educazione, risparmio energetico o ambientale) e la decisione di razionalizzazione dei centri di elaborazione dati della Pubblica amministrazione che si estende anche alle partecipate.

Per innovare in città non si parte da zero

A portare soluzioni innovative per le città ha contribuito anche il bando Smart City lanciato nel 2012 dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur).
L’obiettivo è favorire l’integrazione fra la ricerca, le imprese e le amministrazioni per portare soluzioni innovative nella Pa che non riuscirebbero a essere selezionate utilizzando i normali percorsi di gara che richiedono soluzioni stabili e sperimentate. I temi proposti, assunti nella discussione del gruppo di lavoro come quelli di cui le città dovrebbero occuparsi per diventare smart, sono numerosi: dalla sicurezza del territorio all’invecchiamento della società; dalle tecnologie per il welfare e l’inclusione alla domotica; dalla giustizia alla scuola; dalla gestone dei rifiuti alla salute; dalla mobilità e i trasposti; fino alle smart grid e all’architettura sostenibile, alla gestione del patrimonio culturale e delle risorse idriche. Al bando hanno partecipato molte grandi aziende puntando al vantaggio che consente all’amministrazione che ospita la sperimentazione di acquisire il risultato del progetto con contratto diretto senza gara. Il bando, che prevede 650 milioni di euro di contributi, di cui 170 a fondo perduto e i restanti come finanziamenti agevolati, favorisce la sperimentazione e l’aggregazione di aziende private (grandi e piccole), enti di ricerca, università e le amministrazioni pubbliche che ospitano la sperimentazione. Il costo minimo del progetto che deve essere superiore a 12 milioni (ma non superare 20 milioni) è stato considerato eccessivo da molti partecipanti al workshop che hanno considerato anche troppo complesse le procedure di partecipazione.
Al momento di andare in stampa sono state pubblicate (lo scorso 31 ottobre) le graduatorie che hanno selezionato 2 progetti per ciascuna delle 16 aree individuate dal bando, in alcuni casi aggregando progetti “simili” per evitare duplicazioni e dispersioni. I fondi, circa 655 milioni di cui 170 effettivi e il resto come credito agevolato, saranno erogati fino a esaurimento dopo una verifica sul campo dei progetti da parte dei tecnici del Miur.

Creare valore sul territorio
Ma tutte queste soluzioni, se pur innovative, non sono in grado da sole di rendere smart la città: il vero valore è considerato, unanimemente dal gruppo di lavoro, l’integrazione.
La creazione di intelligenza ha infatti come principale obiettivo la creazione di valore per rendere più competitivi i territori, sulla base delle rispettive vocazioni: attrarre dunque turisti o nuovi cittadini, nuove professioni, nuove imprese e investimenti; migliorare la qualità della vita dei cittadini residenti e aiutare le imprese a diventare più competitive. La digitalizzazione in sé non basta, come l’esperienza di molte imprese ha insegnato. Quando i processi sono stati dematerializzati, ma senza essere stati trasformati, non si è prodotto valore per chi li doveva usare né un miglioramento dell’efficienza.
Il gruppo di lavoro si è quindi posto alcune importanti domande: nelle amministrazioni e nelle società partecipate ci sono le competenze tecniche e organizzative adeguate all’obiettivo smart city? Le unità It devono spesso fare i conti con personale di bassa qualificazione proveniente da altri settori: ricorrere dunque a competenze esterne mantenendo il ruolo di coordinamento o formare le risorse interne? E come riconvertire, in occasione del consolidamento dei data center, personale con competenze di tipo operativo a ruoli applicativi e strategici?

Un Cio smart per la città intelligente
Si tratta di interrogativi sfidanti per il responsabile dell’It, che deve puntare all’evoluzione del proprio ruolo e delle competenze. Non solo deve conoscere i processi dell’amministrazione e avere competenze legali e giuridiche oltre che tecniche, ma deve comprendere, anche e soprattutto, le esigenze del cittadino/cliente e del territorio, delle aziende che vi operano e dei partner. A differenza dei Cio privati, deve saper comunicare e interagire all’interno sia con il responsabile gerarchico sia con il referente politico (l’assessore di riferimento), con un ruolo proattivo. Deve infine saper ottimizzare le risorse dotandosi di strumenti per misurare i ritorni degli investimenti sia in termini di efficienza sia di valore per gli utenti (cittadini e operatori economici del territorio). E per fare tutto ciò deve assumere responsabilità di indirizzo e coordinamento, avere leadership, saper coinvolgere i collaboratori nel lavoro di squadra.

Parola chiave: integrazione. Come realizzarla?
Tutti i partecipanti alla discussione riconoscono che la smart city incrementa la competitività del territorio (a partire dalle diverse vocazioni locali) grazie alla produzione di valore che deriva dall’integrazione dei servizi per i cittadini, per le imprese e i visitatori (turisti o business) e attraendo nuove iniziative imprenditoriali.
Pure nella condivisione della priorità dell’integrazione dei servizi come condizione per il miglioramento della competitività del territorio e dell’efficienza dell’amministrazione, nel dibattito si sono fronteggiate due posizioni diverse sui percorsi da seguire.
La prima vede un approccio dal basso che punta al coordinamento degli attori locali a partire dalle partecipate; la seconda ritiene preferibile un approccio top-down che parta dal livello regionale/governativo. Operare per opportunità presenti nel territorio o invece prevedere una programmazione dei servizi da erogare? La domanda resta aperta come pure resta irrisolto il nodo di una governance più estesa che superi i confini della città in una logica smart country.
Ma i primi passi da compiere sono stati individuati:

  1. Adozione della classificazione del Miur per gli ambiti in cui operare, la creazione di una mappa dei servizi, la definizione delle priorità.
  2. Identificazione delle Best practice nei principali servizi presenti nella mappa da replicare sul territorio.
  3. Ricerca di un supporto legislativo coerente con le esperienze e individuazione degli strumenti più adatti alla diffusione delle smart city.

Note
(1) Si tratta del primo sistema di certificazione per le smart city lanciato dalla municipalità di Barcellona, Gdf Suez, Cisco e oltre 30 città, enti, università di tutto il mondo in occasione di Smart City Expo World Congress a Barcellona nel novembre 2012.
(2) Major Cities of Europe IT User’s Group (www.majorcities.eu) è un gruppo indipendente di rappresentanti delle maggiori città europee, per lo scambio di idee, visioni ed esperienze al fine di ottimizzare le performance del governo locale grazie all’uso dell’information technology. Ne fanno parte anche città non europee come Tel Aviv, Boston e Tblissi.

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