Brevetti e marchi registrati in Italia, l’importanza della proprietà intellettuale

Nel 2016 vi sono state quasi 10mila domande di brevetti, Glp rileva però che manca ancora una diffusa cultura della protezione del proprio sapere tecnologico, una lacuna che si ripercuote sulla redditività del business

Pubblicato il 26 Apr 2017

L’industria italiana non ha abbastanza cultura della protezione del proprio sapere tecnologico, sia esso tecnico e commerciale, lo hanno dichiarato Davide e Daniele Petraz, i titolari di Glp, l’azienda italiana attiva nel settore della tutela della proprietà intellettuale.

Le domande di brevetti l’anno scorso sono state poco meno di 10mila, +7,5% rispetto al 2012 il che rappresenta la conferma di un trend in crescita negli ultimi quattro anni, ma ancora molte meno di quante presentate nel periodo pre-crisi (-11% rispetto al 2006). Inoltre, nonostante i dati dell’Uibm (Ufficio italiano brevetti e marchi) descrivano una situazione di ripresa, l’Italia rimane però ben distanziata dai principali Paesi industrializzati europei e dai veri e propri colossi dell’innovazione quali Cina (1 milione e 100mila depositi secondo il Wipo nel 2015), Stati Uniti (589mila), Giappone (318mila), Corea del sud (213mila) e Germania (67mila).

In Italia quasi l’80% di brevetti, marchi e modelli sono depositati da aziende attive nelle regioni del Nord, mentre purtroppo a Sud la tutela della proprietà intellettuale è davvero poco praticata. Eccezione è il Lazio perché tante grandi aziende hanno una sede legale a Roma.

Tale scarsa propensione alla tutela intellettuale non dipende da una bassa capacità inventiva, ma in ogni caso ciò fa sì che le innovazioni, sia a livello di invenzione, di utilità o estetiche non vengano valutate compiutamente e non si proceda alla loro protezione, da un lato ignorando o sottovalutando i rischi di una mancata tutela, dall’altro non comprendendo i vantaggi diretti ed indiretti che una politica di tutela comporterebbe. Del resto, la brevettazione è strettamente legata agli investimenti in ricerca e sviluppo e a un legame maggiore tra università e industria. L’Istat ha rilevato che nel 2014 la spesa per R&S intra-muros (ovvero svolta direttamente dalle imprese, all’interno delle proprie strutture e con proprio personale) di imprese, istituzioni pubbliche, istituzioni no profit e università ha sfiorato i 22,3 miliardi di euro con un significativo aumento rispetto al 2013 quando fu pari a circa 21 miliardi di euro. L’incidenza sul Pil è così passata da 1,31 a 1,38%, ancora però abissalmente lontana dai valori degli altri principali Paesi europei: 2,90% per la Germania, 2,22%per la Francia e 1,70 nel Regno Unito.

La questione culturale emerge anche dall’approccio che le aziende hanno verso la tutela della proprietà intellettuale.

«In Italia – hanno commentato i fratelli Petraz – questa tutela si applica quasi solo a prodotti che garantiscono già una redditività. I nostri imprenditori solo raramente ragionano sulla gestione della proprietà industriale in termini finanziari ed economici. Mentre approcciarsi alla tutela della proprietà intellettuale è un modo di gestire razionalmente la propria azienda con una programmazione di medio lungo periodo. L’Icc (la Camera di Commercio Internazionale) nell’Intellectual Property: Powerhouse for Innovation and Economic Growth 2011 ha confermato che – a parità di condizioni – un’invenzione brevettata ha un valore economico doppio rispetto a una non brevettata. Inoltre, Epo ed Euipo, i due principali enti europei che si occupano di brevetti e proprietà intellettuale, hanno determinato che in Europa il 42% dell’attività economica è generata da industrie ad alta densità di attività intellettuale».

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