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Tecnologia e industria della moda, a che punto siamo

Dopo gli anni delle delocalizzazioni massicce verso i Paesi dell’Est Europa, oggi il settore del tessile-abbigliamento sta riportando in Italia una parte della produzione, anche grazie all’utilizzo di strumenti quali ERP e MES che possono rendere più efficienti e smart le fabbriche. Lo spiega Nicola Lorenz di Exekon, azienda trentina specializzata in sistemi informativi per il mondo moda

Pubblicato il 13 Nov 2019

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Come sta incidendo la digital transformation nel settore moda in Italia? Un comparto che, secondo gli ultimi dati di Confindustria Moda riferiti alla “multifiliera” del tessile-moda-accessorio (TMA) nel 2018 è cresciuto dello 0,7% fino a raggiungere i 95,5 miliardi di euro, grazie a 66 mila aziende in cui trovano impiego più di 580 mila addetti. Per capire quanto l’innovazione tecnologica influisca, o potrebbe influire, nel mantenere e accrescere questi numeri, abbiamo parlato con Nicola Lorenz, Marketing & Sales Manager di Exekon, azienda trentina specializzata nelle soluzioni IT rivolte al tessile-abbigliamento.

L’efficienza dopo gli anni delle delocalizzazioni

Questo mondo ha vissuto negli ultimi 30 anni una sorta di tsunami, a causa soprattutto dell’ondata massiccia di delocalizzazioni verso Paesi in cui il costo del lavoro era nettamente inferiore al nostro. Prima di allora, in epoca di vacche grasse, i margini erano altissimi a fronte di una domanda del mercato che veniva soddisfatta con collezioni omogenee. La scelta di portare all’estero, successivamente, gran parte della produzione ha impoverito la filiera del fashion made in Italy. “Certo – ammette Lorenz – oggi rimangono competenze, brand, conoscenza e creatività. Mancano però strutture organizzate ed integrate per riuscire a tradurre l’estro dello stilista nel capo finito, in costi e tempi ragionevoli. Se guardiamo alle aziende che producono, l’80% dei costi riguarda la confezione e la manodopera. Sistemi come quelli di Exekon, con un’architettura in cui ERP e MES sono collegati, vanno proprio a dare una risposta a questa problematica, dato che possono aumentare l’efficienza fino al 15-20%. Per un nostro cliente, un importante gruppo specializzato nella moda uomo che fattura più di un miliardo, l’incremento di efficienza è coinciso con un risparmio annuo di circa 3 milioni di euro”. Ma non ci sono solo aziende di grandi dimensioni tra quelle a cui si rivolge Exekon, anche perché le top del settore, con un reddito annuale che supera il miliardo, sono poco più di 10. Rimane, perciò, la vasta platea di quelle 66 mila, all’interno della quale operano medie, piccole e micro imprese.

Come MES ed ERP aiutano il settore moda

Quello che manca, in altri termini, è un ricorso diffuso a tecnologie come i MES (Manufacturing Execution System) per seguire la produzione negli stabilimenti e gli ERP (Enterprise Resource Planning) per coprire tutta la parte gestionale. “Quando si facevano tanti numeri con pochi modelli – continua -, era più facile gestire una fabbrica. Era tutto più standardizzato e prevedibile. Lo stesso vale se la produzione avviene in Bangladesh, in Cina o in Africa. Poiché il MES ti consente di accedere al microcosmo della tua fabbrica, se la produzione non è tua, non ne hai bisogno”.

Un discorso a parte è quello degli ERP, entrati nelle aziende più strutturate a partire dagli anni Ottanta seguendo specialmente logiche legate al prodotto e alla sua commercializzazione. Attualmente è impossibile che una casa di moda non ne abbia uno, probabilmente customizzato seppure obsoleto. Mentre cresce l’esigenza delle PMI di far fronte a una burocrazia ingarbugliata e a commesse sempre più volatili: “Il piccolo laboratorio ci chiede ormai una soluzione che gestisca a tutto tondo l’azienda. Magari non sa neppure che si chiama ERP, ma in sostanza desidera uno strumento che permetta di prendere un ordine velocemente, di tradurlo in commessa di lavorazione, di tracciare gli avanzamenti, costi e che lo aiuti a fare gli acquisti e le consegne”.

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Perché conviene produrre (di nuovo) in Italia

Il rapporto tra le grandi firme e gli altri attori della filiera vede oggi le prime orientate verso una terziarizzazione spinta, basata su una rete estesa di fornitura e subfornitura. All’apice della commessa si pone il marchio, lungo la catena c’è chi sviluppa il prodotto, chi si occupa del taglio, chi della confezione, chi del ricamo e, giù, fino allo stiro, per poi risalire in vista del controllo qualità.

La competizione, perciò, si gioca nella capacità di fungere da service su uno o più anelli della catena, e non certo sul minor costo che ancora è assicurato producendo nei Paesi dell’Est o in Africa. E questo nonostante nazioni come la Romania attualmente siano diventate meno convenienti rispetto a qualche anno fa. Motivo per il quale l’outsourcing produttivo del tessile-abbigliamento low cost è sempre alla ricerca di nuove mete ancora più a est o più a sud. La grande produzione resterà fuori dall’Italia semplicemente per discorsi di costi. Ma la fascia premium e luxury, può tornare e crescere ancora in Italia.

Un trend che adesso però deve fare i conti con requisiti di sostenibilità ambientale, e quindi di tracciabilità, postulati dalla comunità internazionale in maniera ormai costante e non sempre posseduti in certe zone del pianeta. Ma ciò che sta segnando il ritorno in patria della produzione dei capi, oltre all’aumento progressivo del costo del lavoro all’estero, è soprattutto il posizionamento del marchio made in Italy in tutto il mondo. Basti pensare che di quei 95,5 miliardi di euro generati dal TMA, ben il 70% si deve all’esportazione. Parliamo, in particolare, del top luxury e dell’alta gamma, il cui valore aggiunto deriva dall’essere realizzato al 100% in Italia e, per questo, all’interno di una filiera distrettuale corta.

Le richieste delle griffe e quelle dell’imprenditore

“Quando ci confrontiamo con i CIO di questa tipologia di impresa – conclude Lorenz -, affrontando questioni sui sistemi informativi, il cloud, la data security e la progettazione 4.0, la richiesta principale è che la nostra soluzione si integri perfettamente con la struttura informativa che già esiste nell’organizzazione. La seconda è che la nostra esperienza garantisca di portare a termine il progetto nei tempi stabiliti e, infine, che ci siano risultati tangibili e misurabili”.

Il piccolo imprenditore, invece, è più preoccupato, anche giustamente, per i costi e lo sforzo necessari a introdurre una nuova tecnologia in azienda. E sul fronte di Industry 4.0, si ferma all’iperammortamento al 250%, magari perché così può comprare finalmente rinnovare il parco macchine. Il che è un bene per l’ammodernamento degli impianti, ma forse non sa che con una smart factory sempre connessa potrebbe ottenere ancora di più.

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