Berners-Lee: il Web che vorrei fare

Sempre al servizio della gente, consapevole dell’uso delle applicazioni ospitate ma capace di proteggere la vita privata degli utenti da chiunque, governi compresi. L’inventore del World Wide Web ci dice come vorrebbe che fosse la nuova Rete e come ci si potrebbe arrivare

Pubblicato il 06 Dic 2011

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Se ci sono personaggi che ci hanno cambiato la vita, Tim Berners-Lee, anzi, Sir Timothy John Berners-Lee, è uno di questi. Perché è l’uomo che nel 1991 ha inventato il World Wide Web e se oggi Internet è quella che è lo dobbiamo proprio a lui. Se il suo nome è meno noto al grande pubblico di quelli, per dire, di Bill Gates o Steve Jobs è perché il Web è un’infrastruttura e come tutte le grandi infrastrutture è poco percepita da chi ne fa uso: c’è e basta. Così come quasi nessuno sa chi inventato l’autostrada (un italiano, Piero Puricelli, nel 1924), anche se è la rete autostradale l’infrastruttura che ha rivoluzionato il trasporto di uomini e cose.
Berners-Lee nasce a Londra nel 1955, si laurea in fisica ad Oxford nel 1976 e nel 1980 lavora per alcuni mesi al Cern, dove ha la prima idea del concetto di ipertesto. Dopo un periodo di lavoro in Inghilterra nel quale fa esperienza sulle reti, nel 1989 torna al Cern, che allora era il maggior nodo Internet d’Europa, e lì ha l’idea di fondere la tecnologia ipertestuale, il protocollo Tcp e il sistema dei nomi dei domini in un insieme organico: è il World Wide Web. “Gran parte delle tecnologie già c’era – dice Berners-Lee – quello che ho fatto è stato metterle insieme creando un livello più alto di astrazione”. In poco tempo, grazie anche alla potenza della piattaforma NeXT (il computer creato da Jobs dopo essere stato estromesso dalla Apple) e del sistema di sviluppo NeXTStep, realizza un browser che fa anche da strumento di authoring e il 6 agosto 1991 il primo sito web del mondo, http://info.cern.ch, è online. A quel punto, a differenza di altri grandi innovatori, decide che la sua invenzione debba essere disponibile a tutti e nel 1994 fonda il W3C (World Wide Web Consortium), l’ente che cura che gli standard della Rete si basino su tecnologie esenti da brevetti e royalties, e che è tuttora da lui guidato.
Abbiamo incontrato Berners-Lee alla Rsa Conference di Londra (vedi articolo a pag 76) perché tramite la WWW Foundation, altra istituzione da lui fondata nel 2009, sta lavorando allo sviluppo di un nuovo Web semantico, che sia cioè in qualche modo consapevole delle modalità e soprattutto del contesto in cui operano le applicazioni: “Bisogna fare in modo – spiega – che il Web sia usato per quello di cui si ha bisogno e non altro. Per esempio, si dovrebbe poter far funzionare una web-app ignorando la location dell’utente che la utilizza”, cioè permettendo al provider dell’applicazione scaricata di ricevere e registrare un dato personale come la localizzazione dell’utente (in pratica il numero IP di collegamento al Web) solo se necessario, come per esempio per fornire servizi basati su georeferenziazione. Il contrario di quello che fanno molte società, da Google a Facebook, e che piace anche agli enti governativi (che invece tracciano sempre queste informazioni sui propri server). Chiediamo: “Ma non è giusto un qualche controllo su abusi e dell’illegalità?”. “Sì, ma dovrebbe avvenire dal di dentro della rete, non da fuori, come si cerca di fare. Non sono un esperto di sicurezza – prosegue – e so anche che non si può rendere di colpo la Rete sicura, ma un’idea potrebbe essere quella di creare dei repository cloud-based abbastanza protetti, senza ‘back-door’, ma soprattutto gestiti dagli utenti, che vi possano custodire dati e informazioni personali stabilendo quali gruppi o persone vi possano accedere ed essendo informati sugli accessi”. “Cosa cambierebbe se dovesse rifare oggi il Web?” Berners-Lee ride: “Be’, come ho detto anche al Times, toglierei il doppio slash. Non serve proprio a niente!”.

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