Editoriale

Crisi climatica? Il digitale da solo non basta

Dall’e-commerce allo smart working, la digitalizzazione offre prospettive per ridurre consumi e inquinamento. Il rischio di cortocircuiti è però elevatissimo e richiederebbe scelte precise a livello politico

Pubblicato il 06 Dic 2023

Immagine di Lerbank-bbk22 su Shutterstock

In apertura della COP 28, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres non l’ha mandata a dire: “Proteggere il nostro clima è la più grande prova di leadership a livello mondiale. Il destino dell’umanità è in bilico”. Una situazione di precarietà che, stando a quanto percepito dall’opinione pubblica, vede nello sviluppo tecnologico una delle poche speranze per riequilibrare la situazione in una direzione che garantisca la sopravvivenza del genere umano.

Se il fatto che il tema della sostenibilità stia guadagnando cittadinanza nel dibattito pubblico è una buona notizia, quello che preoccupa, però, è che questo tipo di lettura sia eccessivamente inquinato da una prospettiva “tecno-entusiasta”. Per capirci, il rischio che i vari stakeholders sperino in un ruolo salvifico della tecnologia di fronte a un problema che, in realtà, tocca molti (e differenti) piani.

Estremizzando il concetto, sembra quasi che l’Umanità tutta si aspetti che l’innovazione tecnologica possa risolvere, da sola, tutti i problemi che ci affliggono. Se questa visione ha una sua certa fascinazione, vale la pena fare un paio di considerazioni che rimettono “in bolla” la questione.

Il digitale serve se c’è una prospettiva

L’evoluzione tecnologica consente di contrastare alcuni fenomeni che influiscono sulla crisi climatica e ambientale? Certamente sì. C’è un livello adeguato di consapevolezza riguardo ciò? Non sempre.

Facciamo un esempio pratico, partendo dall’e-commerce. Personalmente, sono convinto che l’e-commerce possa essere un fattore chiave nel contrasto alla crisi climatica. Il problema è che la percezione a livello “generale” non ricalca la mia.

Nel dettaglio: acquistare un prodotto o fare la spesa online ha una serie di vantaggi che “pesano” in maniera considerevole sull’ambiente. Prima di tutto, pesa l’ottimizzazione dei trasporti. Al posto di utilizzare il mio mezzo privato per andare ad acquistare ciò che mi serve, lo delego a un servizio che può ottimizzare tutto l’aspetto logistico (oltre alle merci che ho acquistato consegna anche beni per altri consumatori) e che, magari, utilizza veicoli elettrici (o a bassa emissione) meno impattanti della mia auto.

In secondo luogo, il passaggio all’uso dell’e-commerce consente di ridurre il consumo di suolo sul territorio. Se acquisto online, non ho bisogno del mega-super-iper mercato di turno, con la conseguente possibilità di destinare qualche migliaio (milione? miliardo?) di metri quadri di superficie a parchi, aree verdi o spazi pubblici.

Qual è il problema? Sostanzialmente che l’e-commerce oggi non viene promosso sulla base delle considerazioni di cui sopra, ma su logiche ben più prosaiche come il risparmio e la tempestività della consegna. Se i colossi del commercio elettronico focalizzassero il loro modello di business sul contenimento di emissioni e sulla razionalizzazione della distribuzione in ottica “green”, l’impatto potrebbe essere davvero notevole. Detto in altri termini: chi di noi, a parità di costo, non sceglierebbe un acquisto online con tempi un po’ più lunghi e nessun “mega-sconto” se gli fosse prospettato come un modo per salvare il pianeta?

L’effetto boomerang che non ci si aspetta

Attenzione poi a letture troppo “lineari” di alcuni fenomeni. L’esempio dello smart working, in questo senso, è esemplare. Non c’è dubbio che consentire a un lavoratore di svolgere la sua attività direttamente da casa abbia un impatto sulla produzione di CO2 legata ai suoi spostamenti.

Le ripercussioni, però, hanno anche risvolti imprevedibili. Secondo i dati dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, tra il periodo pre-covid (2019) e il 2023 il numero di lavoratori in smart working in Italia è aumentato di quasi 3 milioni. Una buona notizia? Certamente sì.

Quando poi si va a leggere il nuovo Rapporto sulla mobilità degli italiani pubblicato dall’Istituto Superiore di Formazione e Ricerca per i Trasporti, però, si scopre che c’è un effetto collaterale che nessuno, probabilmente, aveva considerato.

Nella sintesi del report, viene evidenziata una diminuzione nell’uso dei mezzi pubblici. Una variazione stimata (2023 su 2019) del -12%. Secondo una ricerca ISTAT, nel 2019 i mezzi pubblici erano utilizzati da 13 milioni di persone. Fatti i conti, il calo a livello numerico dovrebbe essere di circa 1,5 milioni.

Ragionando a spanne, stiamo dicendo che l’hybrid working ha consentito a 3 milioni di persone di spostarsi meno per lavoro, a 1,5 milioni di persone di abbandonare l’uso dell’auto per raggiungere il posto di lavoro. Se l’ambiente ringrazia, le amministrazioni locali ringraziano meno. Il calo di utenti del trasporto pubblico locale (TPL), infatti, ha un impatto sulla sostenibilità economica del TPL stesso.

Un livello di complessità che ci mette di fronte a un paradosso: due fattori evidentemente positivi a livello di contrasto alla crisi climatica finiscono per essere in concorrenza.

Questione di scelte

Come superare l’impasse? Beh, per quanto riguarda l’e-commerce, un’idea potrebbe essere quella di garantire benefici fiscali in ottica “green”. Basterebbe fissare qualche parametro sulle modalità di distribuzione e consegna, utilizzo di mezzi non inquinanti e (perché no) garanzie sulla qualità del lavoro per creare un framework di “commercio sostenibile” che potrebbe aiutare a evitare l’apocalisse climatica. Certo, servirebbe anche un cambiamento culturale non indifferente. Ma lì siamo a dinamiche individuali che si possono difficilmente controllare.

Per quanto riguarda il rapporto hybrid working – trasporto pubblico, la soluzione sembra l’abbiano già intuita alcune grandi capitali europee (Parigi e Berlino in primis) nel momento stesso in cui hanno ipotizzato la gratuità del trasporto pubblico. Una volta spostato il peso della sostenibilità economica sulla fiscalità generale, il tema della diminuzione di utenti diventa infatti irrilevante ai fin dell’erogazione dei servizi. Ancora una volta: far accettare a tutta la popolazione l’idea che il trasporto pubblico sia a carico di tutti (anche di chi non lo usa) non è facilissimo. Diciamo che ci si può provare.

Mi rendo conto… ragionamento molto “nerd”. Ma non vi ci ritrovate?

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