Global Ceo Survey 2008 di Ibm: l’impresa del futuro

Pubblicato il 28 Lug 2008

Dalla Global Ceo Survey 2008, analisi biennale condotta da Ibm, emerge “una fotografia di notevole dettaglio sul futuro dell’impresa”, come scrive in una lettera ai “colleghi Ceo” Samuel J. Palmisano di Ibm. Risposte sorprendentemente consistenti al di là di settori d’industria, geografie e dimensioni organizzative, fanno risaltare cinque linee di forza, chiare al punto da essere promosse al rango di predicati di quello che viene battezzato nel rapporto il «blueprint dell’Impresa del futuro»: affamata di cambiamento; innovativa fino a sorprendere l’immaginazione del cliente; con un business ridisegnato per la reale integrazione globale; discontinua per natura nel modello di business; responsabile socialmente in modo genuino, non solo tattico

Ibm (www.ibm.com) ci ha ormai abituato a uno sguardo biennale a livello planetario sulle aspettative dei Ceo. La Ceo Survey 2008, terza della serie, analizza le risposte di 1135 Ceo e General Manager a capo di aziende di settori pubblici e privati, raffrontandole a risultati comparabili del 2006, e ove appropriato del 2004. In ciascuna delle cinque aree esplorate nella ricerca è stato metodicamente seguito l’approccio di classificare le risposte da un punto di vista dei risultati finanziari ottenuti, raggruppandole in due gruppi di controllo: quello degli “outperformer”, la metà dei rispondenti in un dato settore d’industria caratterizzata da risultati superiori alla media (ad esempio, per fatturato e profitti) e quello degli “underperformer”, la metà caratterizzata da risultati inferiori. Nell’analisi condotta sono state costantemente raffrontate le risposte di questi due gruppi di controllo, comparandole coi dati relativi alle indagini 2006 e 2004, ove disponibili e omologhi. In un quadro di Ceo che si muovono in generale verso disegni di business globali, cambiando in profondità le capacità d’impresa e puntando sempre più su partnership strategiche, è emersa come risultato centrale e consistente della Survey 2008, per ognuna delle cinque aree, una maggior aggressività degli “outperformer”, che meglio anticipano e dimostrano di gestire il cambiamento, sono più globali nel loro disegno di business e trovano più discontinuità innovative nel modello aziendale.

Fame di cambiamento (ma triplica il gap nell’eseguirlo)

Già erano due su tre nel 2006 i Ceo che dichiaravano attese di cambiamento sostanziale. Sono diventati addirittura otto su dieci (vedi figura 1). Ma al di là del dilagante bisogno di cambiare, la percezione è di una capacità di esecuzione che cresce assai meno velocemente: quasi triplica il “change gap” (dall’8% al 22%, media di un 29% per gli outperformer contro un 19% per gli underperformer). Aumentano specularmente (60%) insuccessi o successi parziali (vedi figura 1).

Figura 1

Crescono le intenzioni di "cambiamento sostanziale" dichiarate dai Ceo ma, con esse, anche il "change cap"

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Fonte: Ibm

Ma la Survey dice che il cambiamento si fa non solo più veloce, ma più vasto e più incerto, influenzato da maggiori criticità, rispetto alla più “corta” lista del 2006 (vedi figura 2).

Figura 2

Crescono le criticità che influenzano il cambiamento

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Fonte: Ibm

Di colpo “tutto è importante”, i fattori di mercato (i trend, la concorrenza) che restano dominanti al 48% sono affiancati dagli skill, mentre i fattori tecnologici rioccupano uno stabile terzo posto al 35% e i problemi ambientali diventano due volte più importanti che nell’ultima indagine. Il primo ostacolo all’integrazione globale è proprio nella carenza di skill, decomposta in “skill industry, tecnici e particolarmente manageriali, a supporto dell’espansione geografica e a rimpiazzo dei baby boomer che lasciano la forza lavoro”. I fattori tecnologici sono cruciali per “la ristrutturazione della catena del valore, l’impatto sui prodotti e servizi, i modi nuovi di agganciare ed interagire con i clienti”.

L’impresa del futuro, deduce l’indagine Ibm, sa accettare il cambiamento come uno stato permanente: in un ambiente di mercati, operazioni e modelli di business instabili, sono la sua cultura e i suoi valori a garantire allineamento e coesione. Assume innovatori, capaci di proporre e imporre sfide visionarie, e trova leader carismatici del cambiamento compensati con una partecipazione al business che creano. Opera attraverso un approccio industriale nel produrre esiti di business, facendo del change management una competenza core aziendale, con la definizione e la gestione di robusti programmi di innovazione; sa a tal fine gestire “con mentalità da Venture Capitalist” un portafoglio di investimenti proteggendo e promovendo i progetti più promettenti.

Innovazione che anticipa le attese del cliente

Il quadro è di complessive ottimistiche attese (67% dei Ceo) su un’espansione sia nelle economie in rapido sviluppo (il reddito crescente supporta una domanda di prodotti e servizi di maggior valore: ad esempio 400 milioni di indiani si costruiranno una casa nei prossimi venti anni, più di quanto costruito in Usa dal 1945), sia in quelle già sviluppate (che dovrebbero evitare una crescita altrimenti piatta grazie all’accumulo di ricchezza dei baby boomer che invecchiano – o di chi da loro eredita). Un primo scoglio è nella necessaria differenziazione delle strategie di go-to-market che, per sfruttare demografie e geografie diverse, devono compensarle con forti investimenti locali (per i prossimi tre anni oltre un quarto degli investimenti, il 27,2% contro il 23% degli ultimi tre). Ma la seconda opportunità-sfida viene dalle “crescenti attese di Clienti sempre più informati e collaborativi”: un numero crescente di industry vede i consumatori trasformarsi da passivi in coinvolti, i consumer diventano producer (“Prosumer”) che creano per i loro corrispondenti contenuto sfruttabile come entertainment o pubblicità (per confrontare prodotti e funzionalità prima di comprare; per esempio, su 1000 clienti retail 530 usano Internet, 250 un cellulare e 100 scambiano Sms con amici o familiari). È la “percezione di opportunità” che prevale nella ricerca con un 20,4% di investimenti per i prossimi tre anni, contro il 16,7% degli ultimi tre). E prevale di più presso gli outperformer, che vedono proprio nel servizio ai clienti “informati e collaborativi” l’opportunità di differenziare, prezzare l’offerta, e crescere in tre anni del 36% rispetto al 14% degli underperformer (vedi figura 3).

Figura 3

La percezione delle opportunità fa crescere gli investimenti nei servizi al cliente

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Fonte: Ibm

Dunque l’impresa del futuro, dice il report dell’indagine, sa “mirare al di là dei bisogni espressi”, anticipandone la soddisfazione con esperienze di prodotti e servizi “prime nel proprio genere”. A tal fine, sa rispondere a cultura e bisogni dei mercati locali, pur in ambito di brand o prodotti e servizi globali; sceglie i tempi di ingresso sul mercato contemperando esigenze di occuparlo con early adoption, maturità dell’innovazione e tempi di risposta in rete; intrattiene e incoraggia relazioni tra dipendenti e i clienti leading edge che influenzano successo o fallimento di una campagna; usa tecnologie emergenti (come i mondi virtuali) per nuove forme di comprensione dei mercati e avere feedback veloci dagli stessi, in modo da cogliere uno “shift” della domanda prima della concorrenza.

Business ridisegnato per sfruttare l’integrazione globale

Al di là di un arbitraggio sul costo del lavoro o del cavalcare la crescita economica di Cina e India, emerge l’esigenza di ridisegnare più o meno l’intero business per sfruttare, in generale, tutti gli aspetti di una crescente integrazione globale, per facilitare una collaborazione più rapida e di scala planetaria e saper riconfigurare la macchina aziendale all’affacciarsi di nuove opportunità. La ricerca riporta sette “leve” e l’equilibrio fra orientamento globale e focus locale su cui punta la media dei Ceo (vedi figura 4), suggerendo l’importanza di una “glocalità” ottimale, qualunque sia la scala geografica corrente.

Figura 4

Globale, locale o "glocale"?Le sette leve su cui si fonda l'equilibrio tra business locale e globale emerso dall'indagine Ibm

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Fonte: Ibm

I cambiamenti profondi in capacità, knowledge e asset sono dettati dall’esigenza di spostare il fuoco dall’operatività all’interfacciamento del cliente, e all’operare in diverse geografie e culture, il che richiede un diverso skill mix aziendale, uno shift difficile ma il più importante. Una partnership estensiva è nel futuro dell’85% delle aziende, con gli outperformer che hanno una probabilità del 20% superiore agli underperformer: la motivazione principale si sposta dall’ingresso in nuovi mercati, all’accesso a capacità, con gli skill e i talenti visti come il collo di bottiglia. La crescita attraverso M&a è usata come passaggio chiave che velocizza una strategia di integrazione globale (65% dei Ceo), di nuovo con gli outperformer che hanno una probabilità del 55% superiore di farvi ricorso, rispetto agli underperformer.

Il ridisegno del business per l’impresa del futuro, che è globale o quantomeno “consapevole della globalizzazione” mira a differenziare anzitutto sul fronte degli skill, col sourcing della miglior combinazione di capacità, knowledge ed asset da qualunque centro di eccellenza globalmente integrato nel mondo; a decidere strategicamente quali capacità tenersi in casa e quali accedere con acquisizione o partnership; all’eliminazione di barriere all’integrazione con tecnologia It modulare (Soa); al social networking e a strumenti di collaborazione in tempo reale per diffondere idee e risolvere problemi più velocemente.

Discontinua per natura nel modello di business

Causa la crescente difficoltà di differenziarsi sui prodotti e servizi, i Ceo puntano a cambiamenti del modello di business estesi (69%) e “moderati” (29%): tutti, in pratica. Ma quale modello viene innovato? La maggioranza (39%) innova sul modello d’impresa per specializzarsi e collaborare: “collaboration as a matter of survival”, risparmiando le scarse risorse aziendali e facendo di più con partner o addirittura con concorrenti (71%), per arrivare ad un’impresa intesa come sistema “lasco” (loosely coupled) che decide chi e quando coinvolgere. Del 23% che innova sul modello di fatturato riconfigurando prodotti, servizi e mix, una buona metà sta costruendo nuove strutture di pricing, tipicamente basate sul valore al cliente, cambiando da “pagamento una tantum” ad “addebiti periodici e flessibili”, o adattando la struttura dei prezzi al mercato locale. Infine c’è il modello industry (18%), il più difficile da innovare perché richiede un vero breakthrough di settore, ma sul quale l’indagine scopre che gli outperformer stanno lavorando, addirittura in una percentuale del 40% superiore agli underperformer.

Alla costante ricerca di nuovi modi per competere, l’impresa del futuro sviluppa quindi una mentalità di coltivare discontinuità, sviluppando idee su nuovi campi (green fielding), studiando industrie diverse con potenziale di trasformazione, sperimentando in modo creativo sul marketing, riuscendo a perseguire innovazioni di modello senza far mancare i risultati al business.

Responsabile socialmente in modo genuino, non solo tattico

C’è un’emergente generazione di clienti, dipendenti, partner, attivisti e investitori che nei confronti dell’azienda nutre aspettative crescenti di Responsabilità Sociale (Csr). Riconoscendone l’attenzione, il 75% dei Ceo investe in quest’ambito.

Non a caso il raffronto della Survey 2008 con le indagini precedenti mostra che gli unici fattori esterni sempre cresciuti in modo consistente sono quelli socioeconomici, i problemi ambientali e gli skill personali, tutti e tre legati alla Csr. Che l’agenda del Ceo stia diventando verde lo dice la percentuale che cita i problemi ambientali fra i “top change driver” globali: 9% nel 2004, 12% nel 206, 18% nel 2008, anche se con crescite maggiori in Asia rispetto, nell’ordine, a Europa e Usa. I clienti sceglieranno sempre di più i prodotti in funzione del brand, con sempre maggiore sensibilità agli ingredienti e ai processi per realizzarli. E sembra che i Ceo che si focalizzano sui problemi Csr investano di più in nuovi prodotti e servizi degli altri (prodotti e servizi “socialmente responsabili”).

L’approccio dell’impresa del futuro al Csr sarà sempre più olistico, secondo l’indagine Ibm, partendo dal capire le aspettative Csr dei propri clienti, trovare sistemi trasparenti per fornire informazioni rilevanti la Csr, concentrarsi inizialmente sui problemi ambientali, coinvolgere le organizzazioni non governative come parte della soluzione, attrarre dipendenti a lavorare in azienda per risolvere problemi ambientali.

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