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I tanti volti dell’AI privata allo studio dei leader tech italiani

Se il proprio patrimonio informativo ha valore e può creare valore all’interno di un’azienda, optare per l’AI privata potrebbe essere una buona idea. I leader IT sono oggi chiamati a una importante valutazione di fronte a una tecnologia che richiede loro di immaginare la propria azienda tra 20 anni. Una sfida in cui la priorità deve essere quella di coltivare le competenze interne, per poter continuare a crescere, sempre e comunque

Pubblicato il 06 Dic 2023

Immagine di issaro prakalung su Shutterstock

Dietro alla nebbia di entusiasmo che avvolge intelligenza artificiale e intelligenza artificiale generativa, ci sono anche schiere di responsabili delle scelte IT di intere organizzazioni che si stanno domandando come e se usarla. Magari da utenti privati hanno sperimentato ChatGPT & co, ma tra uno scambio di battute e un investimento aziendale importante, c’è di mezzo un grande e doveroso lavoro di riflessione, analisi e valutazione che sembra essere tuttora in atto. Per lo meno in Italia, dove la maggior parte dei leader IT sta studiando le opportunità e le proposte che fioccano sul mercato. Molte di quelle B2B puntano sul paradigma dell’AI privata e lo fanno con modelli e approcci differenti. Tanta scelta, quindi, per l’IT, ma che si traduce in un massiccio impegno per percepire differenze non banali adottando un approccio lungimirante e, a volte, quasi da veggenti.

Pro e contro dell’AI privata e quando conviene

La presenza dell’AI privata sul mercato non implica che tale soluzione sia adatta a qualsiasi organizzazione interessata all’implementazione di progetti AI based. Ci sono pro e contro in questo paradigma da prendere in considerazione alla luce delle proprie esigenze e della propria natura intrinseca di produttrice di dati.

“Tra i vantaggi c’è la privacy. Rende più facile rispettare i vincoli aziendali sui dati e supporta la crescita della fiducia nell’AI. Non impiegando ‘modelli ready to use’, permette di crearne di nuovi internamente e di personalizzarli. Se non si prendono modelli pre-trained, possono essere allenati alla luce di specifiche esigenze” spiega Carlo Negri, Ricercatore Senior dell’Osservatorio Artificial Intelligence del Politecnico di Milano.

E cita poi un vantaggio di economia di apprendimento: “si acquisiscono una serie di esperienze e competenze innescando un meccanismo di formazione aziendale continua, per poter anche affinare e traslare il modello in diversi ambiti applicativi” spiega. Quanto ai contro, con l’AI privata “ci si fa carico dei problemi del venditore”. Negri si riferisce in particolare alle criticità legate alla compliance normativa da rispettare, ma anche alla necessità di dati in qualità e quantità adeguata al training.

Fondamentale per un’AI privata totalmente interna anche una certa potenza computazionale e sufficienti risorse da investire per lo sviluppo di soluzioni interne. Presupposti non banali, che scremano la lista di organizzazioni realmente in grado di optare per un’AI privata, a meno di non rivolgersi ad aziende che offrano soluzioni con questo tipo di approccio ma ready to use o quasi. In tal caso, questi soggetti si fanno carico di parte dei “contro” e l’opzione privata diventa accessibile a più aziende.

Detto ciò, come Negri stesso fa notare, non è detto che sia la strada migliore. Più che dai settori o dai contesti, dipende dalle specifiche esigenze e dal problema che si desidera risolvere ma, soprattutto, “dal valore effettivo e dalla peculiarità del patrimonio informativo aziendale e dal vantaggio strategico competitivo che si è in grado di ricavarne”.

Con la tecnologia, “imbarcare” anche competenze

Una valutazione complessa che spiega l’attuale “momento di riflessione” in cui tanti leader IT sono immersi. Fondamentale è che siano consapevoli di poter optare anche per soluzioni ibride. “Spesso si finisce infatti per cercare soluzioni pubbliche pronte e disponibili, se hanno servizi base sufficienti per l’azienda, per poi costruire internamente solo quelle con cui si sa che si può generare valore e che riguardano i processi core” aggiunge Negri.

Aprirsi all’AI privata, anche solo parzialmente, impone una scelta di approccio: esistono proposte con modelli vuoti e altre che ne prevedono di pre-trained. Nel primo caso si può contare su una maggiore flessibilità, ma servono tempo, risorse, dati e competenze. Con un modello pre-trained, i dati non costituiscono un problema ma resta necessario personalizzarli con fine tuning o re-trained, condividendoli con terzi. “In questo caso possono nascere delle limitazioni e può capitare che queste soluzioni non rispondano appieno alle esigenze aziendali.

Qualsiasi opzione si scelga, resta fondamentale puntare sulla crescita interna di competenze AI della propria workforce. “Anche lavorando con un vendor, è prevista una fase di co-creazione in cui viene coinvolta una figura-ponte interna per fornire conoscenza del dominio specifico aziendale. Nel frattempo, questa risorsa ha il compito di apprendere tutto il possibile sull’AI e sul modello, per metterlo a terra e poi saperlo mantenere. C’è quindi molto spazio di crescita delle skill interne e va sfruttato al massimo” consiglia Negri.

L’Italia paga sull’AI il suo ritardo digitale

Il panorama italiano è molto variegato per quanto riguarda l’approccio all’AI e, in particolare, all’AI privata. “Fino a un anno fa la tendenza generale era quella di gestire internamente progetti di AI. Le aziende vogliono presidiare l’algoritmo e proteggere i propri dati. Oggi vediamo un forte interesse per questa tecnologia su cui per ora ci si interroga, cercando l’approccio migliore per integrarla nella propria realtà. Fondamentale è farlo tenendo sempre in primo piano competenze e la qualità dei dati utilizzati. Va fatta molta attenzione anche all’AI Act – ricorda Negri – anche se non in versione definitiva, va letto per comprendere quale sarà l’approccio europeo e il futuro dell’AI nel mercato”.

Integrare all’interno di un’azienda l’intelligenza artificiale non è come farlo con una qualsiasi altra tecnologia. Negri lo conferma, spiegando così l’atteggiamento di quelle italiane che, in questi ultimi mesi, “stanno approcciando correttamente il tema e portando avanti progettualità interessanti. Ma si tratta di una tecnologia disruptive, quindi, serve uno sforzo di visione, serve pensare a come sarà la propria azienda tra 20 anni, a come cambieranno i processi, in un mondo sarà completamente diverso da quello di oggi”.

A far strada in questa esplorazione sono il settore finance – o per lo meno una parte di esso – e quello delle utilities, ma l’Italia resta in ritardo rispetto ad altri Paesi come UK, Germania, Francia e Spagna. “Non abbiamo ancora una strategia nazionale per l’AI, c’era un piano e ora c’è un nuovo gruppo che vuole rimetterci mano. Pur investendovi molto, le nostre aziende sono soprattutto PMI e non riescono a uguagliare la media europea – spiega Negri – come Paese, oggi stiamo pagando anche sull’AI il nostro generale storico ritardo nella digitalizzazione”.

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