Outsourcing, strumento di business transformation

Continua a crescere la domanda di outsourcing, insieme agli investimenti aziendali in offshoring. “E, se da un lato la scelta è ancora guidata dall’esigenza di una concreta riduzione dei costi, dall’altro, dice l’agenzia Mckinsey, aumenta l’esigenza di skill e risorse specializzate che non si riesce ad avere in casa”.
A fare la differenza nella scelta dell’outsourcer, infatti, pare essere non tanto il miglior prezzo quanto, piuttosto, la capacità di garantire risorse in modo continuativo. Ecco che l’outsourcing sta diventando uno degli strumenti strategici a cui ricorrono le aziende per supportare la business transformation.

Pubblicato il 28 Lug 2008

cover100

Un mercato che cresce e continuerà a farlo anche in futuro. Ma anche un mercato che si sta evolvendo perché cambiano le motivazioni e i comportamenti della domanda. Stiamo parlando dell’outsourcing, un tema che è stato recentemente analizzato da McKinsey (www.mckinsey.it) attraverso una ricerca che ha riguardato una settantina circa di relazioni tra aziende internazionali di grandi dimensioni e fornitori.
Il primo risultato del sondaggio è che la domanda di servizi in outsourcing è in crescita. Il trend si ricava considerando un andamento stabile degli investimenti tradizionali, che rappresentano grandi numeri, accompagnato da una crescita molto sostenuta di quelli in offshoring (esternalizzazione di processi in un paese diverso da quello in cui è situata l’azienda cliente), che costituiscono una fetta della torta ancora limitata ma che è destinata a ingrandirsi sempre di più nei prossimi anni. “Una seconda importante rilevazione effettuata dalla ricerca –

precisa Umberto Natale (nella foto), principal di McKinsey – è che sono sempre di meno le iniziative di outsourcing a sé stanti e sempre di più quelle inserite in progetti più ampi di business transformation. Un fenomeno che è figlio del trend di internazionalizzazione delle imprese e di un’evoluzione forte del settore finanziario. All’interno di ampi programmi di razionalizzazione, creazione di poli di eccellenza a livello globale, ridisegno di processi end-to-end, sviluppo di nuovi prodotti, iniziative per l’It-enablement, trovano spazio di inserimento anche l’outsourcing e l’offshoring. Anche con l’obiettivo di un risparmio dei costi diversi da quelli delle retribuzioni”.

Storicamente, l’outsourcing nasce per dare una risposta a esigenze di riduzione dei costi. Poi diventa un modo con cui le aziende cercano risorse in grado di gestire determinate problematiche meglio di loro e a costi più bassi. Ora questo approccio si sta nuovamente evolvendo. Ed è una riprova il fatto che, come spiega sempre Natale, “da un unico provider si sta passando ad avere più fornitori, in una logica di selective sourcing. Le aziende, cioè, tendono a scegliere i migliori provider all’interno di alcune sottoaree e a mettere pressione competitiva sui fornitori. Questa tendenza comporta sì il rischio di una maggiore complessità, ma può garantire costi minori e maggiore qualità dei servizi perché si ragiona in un’ottica di specializzazione. Il tutto funziona se le imprese dedicano sufficiente tempo e risorse a gestire i fornitori. Sotto questo punto di vista, va però detto, non esiste un’unica modalità di approccio al problema. In alcuni casi le relazioni sono gestite in modo separato, in altri in maniera accentrata”.

Customer satisfaction: il driver principale
Circa il 60% delle imprese interpellate da McKinsey si dichiara soddisfatto delle proprie relazioni di oursourcing; il 13% è addirittura molto soddisfatto. Non stupisce quindi che la stragrande maggioranza del campione dichiari che in futuro gli investimenti in questa metodologia aumenteranno.
Cosa rende attraente il ricorso all’outsourcing?
“Tra gli obiettivi – risponde Natale – rimane l’arbitraggio sui costi del lavoro. Si può dire anzi che tutte le iniziative di offshoring nascano per questo obiettivo. Tra le altre ragioni, però, aumenta di consistenza il bisogno di talenti e risorse che non si hanno in casa o si considera troppo costoso acquisire. In futuro questa motivazione tenderà a diventare sempre più presente non solo nelle aziende dei paesi anglosassoni, ma anche di quelli dell’Europa continentale. Un altro aspetto che incoraggia il ricorso all’outsoucing è la customer satisfaction. Una volta le aziende erano meno sicure sulla possibilità di trovare, oltre a un risparmio dei costi, anche un’effettiva qualità del servizio. Oggi invece è sempre meno così. La soddisfazione del cliente tenderà, quindi, a diventare un driver sempre più trainante verso il ricorso all’outsourcing”.

La soddisfazione deve essere di entrambi. Occhio a “tirare sul prezzo”
Le risposte ricevute dal campione della ricerca e il loro incrocio hanno permesso a McKinsey di valutare se determinate scelte o timori riguardanti l’outsourcing fossero miti o realtà. Il primo tema esaminato è quello della relazione tra soddisfazione e prezzi. “Non appare – afferma Natale – che ci sia diretta correlazione tra livello di soddisfazione medio e prezzo medio. Tanto che chi si è dichiarato più soddisfatto del prezzo fa parte della schiera di coloro che hanno espresso minore soddisfazione per la relazione nel suo complesso. Questo fenomeno si spiega facilmente se consideriamo i megadeal che sono stati siglati dopo estenuanti trattative sui prezzi. Evidentemente, a fronte di bassi introiti i provider rispondono con staffing inadeguati e con rotazioni più rapide del personale impiegato. Il nostro consiglio, quindi, è cercare di spuntare prezzi che siano migliori possibili ma anche sostenibili. Una relazione è importante che sia un “business case” per entrambi i partner. Un rapporto che crea valore è uno che aumenta la torta e dà da mangiare a tutti”.
Non una grande correlazione appare esistere neanche tra la dimensione del provider, il loro numero e la soddisfazione. Dall’indagine emerge che il livello di soddisfazione è più alto tra chi intrattiene tra i tre e i cinque contatti mentre decresce tra chi ne ha meno e chi ne ha di più. La verità, insomma, sembra stare nel mezzo. Se è vero che più specializzato è il provider e maggiore può essere è la qualità del servizio, è altrettanto vero che quando il numero di fornitori è molto elevato le imprese devono essere attrezzate a gestire una maggiore complessità. “Il trade-off si trova con poche relazioni con fornitori più grandi” deduce Natale.

E se i migliori se ne vanno?
Un altro tema che necessita di essere analizzato con attenzione è quello del livello di “attrition” (tasso di abbandono della posizione) del personale del fornitore. “Molti manager di aziende che ricorrono all’outsourcing – spiega il principal di McKinsey – sembrano rassegnati al fatto che le migliori risorse offerte dall’outsourcer tendono a ricollocarsi presto, o all’interno dello stesso provider o altrove”. Dall’indagine risulta che i migliori fornitori sono quelli che mostrano tassi di attrition tra il 5 e il 10%, mentre il peggior quartile è quello che registra livelli del 30% o superiori. È importante cercare di capire dove e perché può esserci un livello di attrition più alto di un livello normale e fisiologico – perché le persone devono giustamente anche cambiare situazioni e fare nuove esperienze – e come si possa evitarlo. Il livello di attrition tende a essere maggiore nei casi di outsourcing che prevedono lo “staff aumentation” per il cliente, cioè l’utilizzo di personale del provider presso il cliente. Dato che certi task non si apprendono in meno di tre-quattro settimane, è chiaro che in queste situazioni un attrition del 30% rappresenti un problema. “Le cause di un elevato turnover del personale del provider – spiega Natale – possono essere ricercate in una gestione non ottimale di queste risorse, che vengono magari inviate e poi quasi abbandonate a se stesse in un ambiente che non è il loro e dove, in qualche caso, vengono impiegate per svolgere mansioni a basso valore aggiunto e di conseguenza finiscono per essere considerate quasi come risorse di “serie B”. È ovvio che, appena possono, queste persone cercano nuove opportunità di crescita professionale ed economica”.
Anche nel caso di outsourcing per “staff augmentation”, i fornitori dovrebbero cercare di dare ai propri addetti più visibilità di percorsi di carriera e sviluppo professionale, per esempio facendoli ruotare in aziende e contesti diversi. In ultima analisi, l’attrition deve essere considerato un problema quando è molto alto. E questo rischio è maggiore laddove si utilizzano servizi di outsourcing in “staff aumentation” invece che “managed service”. In questo caso – che però richiede che il cliente sia disposto a non avere il controllo del processo, se non all’inizio e alla fine – le risorse lavorano presso il provider, che quindi riesce a gestirle meglio dal punto di vista dell’attuazione di “mix di buone pratiche” (alternanza di attività ripetitive e stimolanti, percorsi di crescita professionale più visibili, ecc.). Se dal tema del rapporto tra qualità degli skill e attrition passiamo a quello tra modello di servizio e attrition, è chiaro che quello di “staff augmentation” è il modello più rischioso per quanto riguarda la qualità delle risorse. Questo non significa che sia sbagliato, ma va affrontato con le dovute precauzioni. “Quando esiste un buon razionale per questa scelta – interviene Natale – e comunque prestando la dovuta attenzione a come sono gestite le risorse”.

Outsourcing anche di attività "core"
Una conclusione da sfatare, risulta dalla ricerca McKinsey, è che l’outsourcing sia valido solo per attività a basso valore aggiunto e non core. “Siamo a conoscenza – esemplifica il principal della società di consulenza – del caso di una banca che ha dato in outsourcing una nuova piattaforma per la gestione dei derivati. Non solo dell’aspetto It, ma anche del backoffice, cioè pure operation. Alcune aziende farmaceutiche esternalizzano attività di ricerca. Molte istituzioni finanziarie anglosassoni utilizzano l’outsourcing per l’application management”. Anche con riferimento ad attività nient’affatto meccaniche e a basso valore aggiunto, cresce il ricorso all’offhoring. “Oggi vediamo anche diverse aziende francesi e tedesche, in settori quali la logistica o l’automotive, ricorrere all’offshoring. L’India è una delle più grandi location per queste attività. Per il banking lo è anche l’Est Europa. Basti vedere il caso di UniCredit (www.unicreditbanca.it) in Romania, un paese con il quale abbiamo basse barriere linguistiche. Come le hanno per la Francia i paesi del Nord Africa, area che nei prossimi anni emergerà in modo prepotente per l’offshoring. Del resto, il maggiore gap del reddito pro-capite è quello che passa attraverso lo stretto di Gibilterra. I paesi del Nord Africa come l’Algeria o il Marocco offrono una qualità delle risorse umane in continua crescita e un valore del costo del lavoro premiante rispetto ai paesi dell’Europa orientale”.

Definire penali credibili
C’è infine un altro punto su cui si sofferma, tra altri ancora, l’analisi di McKinsey: quello del rapporto tra esistenza di penali e soddisfazione nella relazione di outsourcing.
“Abbiamo rilevato – conclude Natale – un’area di clienti che si dicono molto soddisfatti delle loro relazioni di outsourcing e che appartengono al segmento di quelli che hanno previsto penali e che alla fine non le hanno mai applicate. Va però detto anche che esiste un segmento di clienti che non hanno previsto penali e alla fine si sono trovati insoddisfatti. La nostra conclusione, quindi, è che le penali è giusto prevederle, ma devono essere credibili. Bisogna evitare di “iperingegnerizzare” i sistemi di penali. Qui la semplicità è un valore. Regole troppo complicate sono difficili da monitorare. Quindi, penali sì, ma senza eccedere”.
Un atteggiamento che, del resto, risulta ragionevole alla luce di relazioni di outsourcing che si trasformano in partnership strategiche.

Leggi anche Dall’ottimizzazione dei costi a valore per il business

Valuta la qualità di questo articolo

La tua opinione è importante per noi!

Articoli correlati