Computo ergo non cogito (parte 1°)

Qual è la differenza filosofica e sostanziale che passa tra il concetto di free software e quello di open source? Qual è il lato oscuro di google, ormai assunto come oracolo e fonte inconfutabile di verità? Disquisizioni sociologiche su due fenomeni tecnologici, che tipicamente sfuggono agli informatici: lo spunto da due libri pubblicati dal collettivo di ricerca ippolita.

Pubblicato il 28 Gen 2014

Immaginate la scena. Interno giorno, di fronte a una macchinetta del caffè. Un informatico, neoassunto, ed una sociologa, anch’essa neoassunta nella stessa grande azienda multinazionale. E’ lei, nettamente più sveglia, a rompere gli indugi. “Certo che, a pensarci, è davvero incredibile… Voglio dire, l’informatica, beh non che io sia proprio un’esperta, però insomma l’informatica è forse la tecnologia più sociopolitica degli ultimi 30 anni… non credi?”. La risposta dell’informatico sta tutta nello sguardo vitreo, tra l’appannato e il vacuo con cui anticipa un “Boh. Scusami ma adesso devo tornare alla mia postazione che devo ancora capire come fare funzionare il plugin per Twitter…. sai ho messo in piedi un’app basata su open data, sentiment analisys e reti neurali ad attrattori in grado di generare dei tweet ad-hoc in risposta a campagne di disinformazione mirate contro la nostra azienda…”. La risposta della sociologa sta tutta nello sguardo sbigottito, tra il terrorizzato e il rassegnato con cui anticipa uno sconsolato, coltissimo “paca, ni estas en bonaj manoj” (dall’esperanto: “Tranquillo, siamo in buone mani”.
Sarò pure ingeneroso e pittoresco verso la mia medesima categoria, gli informatici, ma vista la situazione non mi pare proprio il caso di essere indulgenti. D’altronde, basta fare un esperimento pseudoscientifico per rendersene conto. Prendete anche solo un informatico dal mucchio, uno qualunque, e provate a chiedergli un parere sulla differenza di ‘visione’ tra open source e free software. Già che ci siete provate a chiedergli anche se si è mai interrogato su quale sia l’assunto ‘scientifico’ dietro il famoso algoritmo Page Rank di Google; per finire chiedetegli un parere sugli effetti del default power di Facebook e i suoi legami con l’anarco-capitalismo. Non sorprendetevi se lo sciagurato vi guarderà come se gli aveste chiesto la differenza tra brasato e stracotto: non siete stati sfortunati nell’estrazione del campione, è che mai come in questi casi la probabilità di fare cilecca (o centro…) è davvero altissima.
Oggi, anzi, fin da uno ieri abbastanza remoto, un informatico viene allevato, plasmato, costruito modellandone una mente dotata di un unico compartimento stagno, ‘simbolico-razionale’, in cui i simboli e la razionalità attingono allegramente da un mix fideista, consolatorio, semplicista. Il risultato è una specie di ‘cinghiale laureato in informatica’ (riadattando l’ironica definizione di Fabrizio De Andrè a proposito degli esseri umani senza utopia, tutti istinto e raziocinio) del tutto digiuno di scienze sociali, il cui ‘istinto’ lo guida attraverso un mondo semplificato ad arte per poter essere ‘compreso’ per via algoritmica. Certo, generalizzare in questo modo lascia il tempo che trova ma sfido chiunque ad affermare, al contrario, che gli informatici siano anche solo capaci di cogliere la portata degli impatti sociali dei sistemi che realizzano.
Il fatto è che manca quasi del tutto la capacità di analizzare criticamente il fenomeno informatico dal suo interno, partendo cioè da un punto di vista che sappia includere proprio chi l’informatica la fa. Per chi vuole capirci di più, l’unica alternativa all’ignoranza è affidarsi a un osservatore esterno, non-informatico, che si prenda la briga, tanto per cominciare, di capire il linguaggio con cui l’informatica si esprime. Eliminata l’impressionante quantità di pubblicistica acritica e tecnoentusiata o tecnofobica a priori, nel sostanziale deserto di letteratura accessibile a chiunque (intendo in termini di facilità di accesso alle fonti e di comprensibilità e non certo di banalità di analisi) si distingue un gruppo di lavoro italiano davvero interessante. Mi riferisco ad Ippolita (ippolita.net), un collettivo di ricerca internazionale per scritture conviviali i cui argomenti di indagine e formazione spaziano dal (reality) hacking al free software, dalla filosofia all’antropologia delle tecnologie. Come identità eteronoma, Ippolita ha pubblicato diversi lavori: «Open non è free» (2005, it), «Luci e ombre di Google» (2007, it-fr-es-en) e il recente «Nell’acquario di Facebook. La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo» (2012, it-es-fr). Tutti lavori copyleft, disponibili sul server indipendente Ippolita.net, che esplorano le «tecnologie del dominio» e i loro effetti sociali.
Ben documentati, originali, stimolanti, i lavori di Ippolita rappresentano per l’informatico di professione un pungolo costante a gettare lo sguardo ‘oltre’ e ‘attraverso’, alla ricerca di una chiave di lettura che renda in primis intellegibile un percorso tutt’altro che casuale, dal ‘peccato originale’ dello scisma open source-free software fino al baratto tra privacy e ‘libertà’ [di consumare]. Vista la densità e la mole dei contenuti, in questo articolo cercherò di raccontare per sommi capi i primi due lavori, al terzo dedicherò un articolo a parte. Inutile dire che consiglio vivamente di andare a leggersi i lavori completi.

“Free as a free speach, not as a free beer”
Open non è sinonimo di free, tutt’altro. Ancora oggi se chiedete che differenza c’è tra open source e free software nella stragrande maggioranza dei casi la risposta (errata) sarà ‘nessuna’. Eppure, nel 1998 la differenza tra i due termini era talmente chiara da provocare un vero e proprio scisma nella comunità hacker: da un lato i ‘vecchi’ hacker capitanati da Richard Stallman e fautori del free software e dall’altro un universo in fermento in qualche modo capitanato, tra gli altri, da Richard Raymond , Bruce Perens, Tim O’Really e Linus Torvalds. Le differenze di visione non potevano essere più marcate: da un lato Stallman propugnava un’etica basata sulla libera condivisione, circolazione, adattabilità del software; dall’altro Raymond e gli altri si preoccupavano di riutilizzare le metodologie di sviluppo tipicamente hacker (assolutamente vincenti rispetto al vecchio approccio gerarchico-piramidale – si veda il famoso “La cattedrale e il bazar” di Eric Raymond) in un contesto commerciale fermamente radicato intorno al concetto di ‘software chiuso e proprietario’.
La differenza filosofica è sostanziale: da un lato abbiamo il primato della libertà intesa come gesto aperto, motore primo di una circolazione di idee e prodotti il cui valore (in primis sociale) aumenta di pari passo alla sua diffusione. Dall’altro abbiamo la rivendicazione di un concetto di libertà definita all’interno di uno schema di mercato, in pratica la libertà di ‘vendere e comprare’ un software da parte di un proprietario. Ancora più chiaramente: il free software si fonda su quattro libertà fondamentali (libertà di esecuzione, di modifica, di copia, di distribuzione); l’open source cerca di unire i pregi dello sviluppo aperto alle classiche esigenze di un’azienda informatica.
La cosa interessante è che nel free software non si parla mai di gratuità visto che il ‘free’ si riferisce alle quattro libertà fondamentali. Con una tipica battuta alla Stallman il ‘free’ va inteso come “Free as a free speach, not as a free beer” (libero come il pensiero, che non significa “birra gratis”). Nonostante tutto però il termine ‘free’ era troppo ambiguo per non turbare l’immaginario. Per questo ci voleva qualcosa di meno ‘politico’ e che non sapesse di gratis… ‘open’ appunto.
Perché è importante sapere, capire la differenza tra free e open source? Se per la maggior parte di noi la differenza può apparire sottile, quasi inesistente, dal punto di vista filosofico la differenza è grandissima. Il free software implica una visione del mondo in cui la tecnologia informatica è uno strumento liberamente adattabile alle esigenze dei singoli, plasmabile al punto tale da non poterne (volerne) prevedere a priori tutti gli usi possibili (e dunque consentiti/vietati). L’open source non garantisce invece tutte e quattro le libertà fondamentali definendone per esempio a priori l’uso che se ne può fare o vietandone l’esecuzione in determinati contesti. Una differenza non da poco e che ogni sviluppatore dovrebbe tenere ben presente prima di decidere il tipo di licenza da adottare per la propria creatura.

Il lato oscuro… di google
Quanti di noi si sono mai posti il problema di come ‘funziona’ Google? O meglio ancora quanti si sono mai interrogati sul come abbia senso usare Google, su quale sia il suo modello implicito di conoscenza? Attingendo a piene mani nel mondo delle metodologie di sviluppo hacker, Google si è costruito fin dall’inizio un’immagine di motore di ricerca ‘scientificamente oggettivo’, talmente semplice da usare, pulito nell’interfaccia e veloce nella risposta da apparire ‘perfetto’.
Eppure il risultato della ricerca non può che essere una vista particolare, un percorso specifico scelto attraverso algoritmi non del tutto trasparenti e applicati in base a criteri ancor meno espliciti. Ora, è chiaro che il punto non è la demonizzazione di Google e dei suoi simili ma piuttosto la necessità di un utilizzo critico, consapevole, informato, di uno strumento che rischia di diventare l’equivalente di un oracolo, la cui ‘perfezione e neutralità’ non si mettono in discussione.
Il rischio, tutt’altro che campato per aria, è che la scintilla che illumina percorsi nuovi, inattesi, totalmente inesplorati, ossia l’essenza, il senso stesso dell’interrogativo-interrogazione da cui si è partiti, si dissolva in un meccanismo di delega implicita a una ‘super-intelligenza’ intermediata dalla ben nota, riassicurante interfaccia minimal. Peggio ancora, il rischio è che il senso lo si scelga scorrendo tra i risultati, assunti come verità inconfutabili.
Per concludere, due brani estratti direttamente da  «Luci e ombre di Google»: “L’uso critico delle fonti dipende dalla capacità dei soggetti di accettare valutare l’attendibilità delle informazioni, non dalla bontà intrinseca delle tecnologie digitali. L’informatica non è semplicemente una tecnica per gestire l’informazione in maniera automatica, ma possiede una logica intrinseca, cioè lavora e modifica continuamente le sue stesse fondamenta. Essa è fisica, teorica e sperimentale insieme: studia la formalizzazione del linguaggio (dunque formalizza la conoscenza), la applica ai componenti fisici dell’elettronica, ne ottiene linguaggi che a loro volta influenzano le teorie della conoscenza, si regge cioè su una dimensione ricorsiva del tutto particolare. Google sviluppa a fondo tale logica ricorsiva: è una straordinaria macchina che si costituisce attraverso il suo stesso utilizzo da parte degli utenti. In questo senso, è una macchina “autopoietica”, che accumula tutte le informazioni di base immesse ogni giorno sulla Rete da milioni di utenti […] per vendere pubblicità in maniera capillare. I dati degli utenti sono diventati un enorme patrimonio economico, sociale e umano. Un patrimonio da proteggere, certamente, ma anche un territorio in cui curiosare, indagare, sperimentare.” E ancora: “Le tecnologie digitali rappresentano […] una possibilità di liberazione solo se vincolate allo sviluppo di alter-ego digitali complessi, consapevoli, in grado di interagire in maniera imprevedibile. […] La fiducia nella possibilità di modellare tecnologie in base ai desideri degli individui è indispensabile per creare Reti davvero libere, digitali e non solo. Il caos dei messaggi contraddittori, il rumore di fondo a volte insopportabile e l’ampiezza quasi inconcepibile della Rete possono senz’altro incutere timore, ma l’esplorazione è appena cominciata.”

*Simone Bosetti è Head of It & Operations, April Italia

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