Cooperative Working nell’impresa estesa: come valorizzare gruppi di lavoro e competenze distribuiti

L’azienda oggi è sempre più distribuita, con confini virtuali estesi e di sfumata definizione, con competenze e talenti sempre più mobili e dislocati in punti diversi dell’organizzazione. Serve quindi mettere a punto una strategia e adottare gli strumenti più adatti per poter utilizzare al meglio le competenze laddove queste si trovano. E allora, quali sono tali strumenti e quali le metodologie per elevare il livello di cooperazione tra le persone, sia all’interno dell’azienda sia nella loro distribuzione sul territorio?

Pubblicato il 06 Feb 2008

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Oggetto del dibattito di uno dei consueti eventi che ZeroUno periodicamente organizza per analizzare, insieme a imprese, fornitori e analisti, le tendenze evolutive dell’Ict applicate al business, il tema del cooperative working ha suscitato l’interesse dei partecipanti che si sono confrontati su uno degli elementi di rapido miglioramento organizzativo e di efficienza delle imprese, rappresentato dai sistemi di comunicazione e di collaborazione. “Parlare di

cooperative working è oggi abbastanza complesso”, dice Stefano Uberti Foppa (nella foto), direttore di ZeroUno e chairman dell’evento. “Dal nostro punto di osservazione si configura come una risposta iniziale ad una serie di complessità di tipo strutturale/organizzativo che le aziende si trovano ad affrontare a seguito di espansioni sul territorio, fusioni ed acquisizioni, o semplicemente per una superiore flessibilità richiesta, se non imposta, da un mercato in cui la domanda è sempre più caratterizzata da velocità e dinamicità”. “Negli ultimi mesi, c’è stata un’accelerazione potente del modo non solo di come ognuno di noi opera ma, soprattutto, di come le aziende interagiscono tra loro”, dice Anna Maria Di Ruscio (nella foto), Partner di NetConsulting. “Le

organizzazioni aziendali stanno profondamente cambiando e con esse anche i connotati economici, ossia i sistemi attraverso i quali le aziende interagiscono, tant’è vero che ormai si parla di economia a sinapsi per sottolineare l’aspetto importante delle correlazioni”.
“Parlare di cooperative working significa prima di tutto andare a mappare i processi critici nell’organizzazione, individuare quali sono i nodi della rete aziendale (sia interna che esterna), capire e verificare quali le relazioni e interazioni tra individui, soggetti, processi, ecc. e, quindi, accertare quali sono e come avvengono le correlazioni tra i nodi”, continua Di Ruscio. “Esistono dei punti nodali su cui affluiscono e convergono tutta una serie di reticolati di conoscenze e di informazioni che vanno individuati, analizzati e quindi gestiti”.

Come collaborare
La tecnologia oggi può favorire il cooperative working partendo proprio da soluzioni di mappatura dei processi e profilazione degli utenti, fino a giungere ai sistemi di collaborazione “tradizionali” come l’e-mail e a quelli ormai noti e “tipici” del web 2.0 (blog, chat, wiki, crm collaborativo, web community, ecc.). Tra questi strumenti va considerato anche il mezzo per eccellenza più immediato e semplice da usare: la videocomunicazione, ormai distante anni luce dai vecchi sistemi di videoconferenza. “Dalla nostra esperienza, ciò che manca ancora a livello italiano è un approccio strutturato e ben definito”, dice Michele Dalmazzoni (nella foto), corporate sales

manager di Tandberg Italia. “A volte manca la reale comprensione di cosa possono realmente fare oggi le tecnologie e come vanno impiegate al meglio. I sistemi di videoconferenza moderni, per esempio, consentono di gestire una comunicazione face-to-face efficace che facilita la comprensione degli interventi delle persone riducendo gli errori di intendimento e interpretazioni errate”.
“Dal punto di vista delle soluzioni, però, il freno culturale può influenzare anche la scelta tecnologica”, dice Danko Stipic (nella foto a sinistra), responsabile It del circuito delle

banche estere di Intesa San Paolo. “Concordo. In un progetto di cooperative working – prosegue Dalmazzoni, – il 40% è dato dalla tecnologie e ben il 60% dall’aspetto culturale”. Ciò su cui si trova maggiormente ad operare Tandberg, infatti, è proprio l’aspetto legato ai processi, alla mappatura delle relazioni e correlazioni in azienda.
E analizzando proprio l’aspetto legato ai processi, Uberti Foppa ha chiesto: “I processi collaborativi nascono in modo casuale partendo dalla tecnologia oppure è necessario definire a priori quali sono e come devono essere correttamente gestiti i processi aziendali ai fini di un cooperative working efficiente che può trovare nella tecnologia il giusto supporto?”
Secondo Riccardo Baraldi (nella foto), responsabile sistemi informativi e Cfo di Coe Clerici, “dal punto di vista tecnico a volte è difficile colmare alcuni gap legati, per esempio, ai

fusi orari. Inoltre, alcuni processi necessitano ancora di una collaborazione diretta, specie per esempio per la parte produttiva, dove la tecnologia può fare da supporto ma, senza dubbio, deve prima esserci una certa organizzazione e un perfetto controllo dei processi stessi. Trovo efficace l’apporto tecnologico soprattutto per l’area commerciale dove la velocità di risposta (o l’anticipo) al mercato fa la differenza e dove quindi i sistemi di collaborazione come la videocomunicazione possono diventare strategici e aggiungere valore al lavoro di gruppo”.
“Noi usiamo la videoconferenza ormai da anni”, interviene Maurizio Besurga (nella foto in basso), responsabile sistemi informativi di MediaMarket. “Siamo 7000 persone sparse su

tutto il territorio e lo strumento della videocomunicazione diventa perciò quasi indispensabile, soprattutto per processi commerciali di un certo tipo che necessitano di velocità di risposta e di decisione e che quindi, se fossero gestiti “tradizionalmente” attraverso il contatto fisico, diverrebbero troppo lunghi e onerosi e produrrebbero senz’altro una perdita nel business”.

I freni alla collaboration
“Parliamo di cooperative working e di condivisione delle informazioni”, dice Paolo Torelli (nella foto a destra), responsabile sistemi informativi di Fiditalia. “Non è semplice, ancora

oggi, far percepire in azienda l’importanza che certi strumenti possono avere. In genere vige un senso di timore, per esempio, per la perdita dei dati e delle informazioni”.
In alcuni casi, infatti, a frenare la collaboration in azienda è l’esigenza di sicurezza, come conferma Giovanni Hoz (nella foto a sinistra), responsabile dei sistemi informativi di Bolton Servizi. “Il concetto di cooperative working l’ho trovato molto radicato e sentito in una realtà multinazionale come Parmalat

(realtà in cui Hoz ha lavorato per alcuni anni, ndr) dove, unitamente al bisogno di collaborazione c’era però una necessità ancora maggiore, ossia la sicurezza, che spesso si pone come elemento di freno ai progetti di cooperazione”.
Alla base del cooperative working dovrebbe esserci lo scambio di dati, informazioni e conoscenza che, secondo Hoz e altri partecipanti alla tavola rotonda, in Italia, trova alcuni ostacoli nelle normative che valutano “sensibili” anche dati che, forse, non lo sono realmente. A rafforzare l’opinione di Hoz interviene Renzo Passera (nella foto), assistente dell’amministratore delegato con responsabilità It in Italcementi fino al 2007.

“Trovo che le tecnologie oggi siano sufficientemente mature e valide per supportare la collaborazione a tutti i livelli e in qualsiasi modo si voglia. Eventuali freni derivano dalle leggi troppo stringenti e, spesso, contorte, nonché dalla cultura aziendale. Non sempre i Cio riescono ad essere motori di innovazione laddove il top management non percepisce l’esigenza di un investimento in un progetto di cooperative working”.
Ma se il top management non sempre riesce a cogliere le reali necessità, è anche vero che a volte il cambiamento parte dal basso.
“La spinta al cooperative working in azienda arriva soprattutto dagli utenti che conoscono bene gli strumenti di collaborazione del mondo consumer e che sentono la necessità di

applicarli anche professionalmente”, dice Ferruccio Maccarini (nella foto), Cio di Sbs Leasing, “Noi siamo riusciti a far passare l’idea, anche in capo all’amministratore delegato, che per una migliore gestione delle risorse era necessario operare “per comunità” e impostare un’infrastruttura tecnologica che consentisse una comunicazione pluridirezionale in linea con le esigenze sia dell’azienda che delle competenze interne, proprio partendo dagli utenti”.
“A volte, invece, come nel nostro caso – interviene Roberto Rossi (nella foto in basso), direttore dei sistemi informativi di Walt Disney Italia, – la spinta viene dall’alto. Noi possiamo

dire di poter contare su un top management illuminato che ha organizzato lo staff It, per esempio, in modo da poter garantire e fornire i migliori servizi agli utenti dislocati sul territorio. Sfruttando il fuso orario, sono stati delocalizzati i centri operativi mettendo le persone e le competenze che devono interagire tra loro ad una distanza massima di due/tre fusi orari, in modo da garantire un efficiente risultato nell’erogazione dei servizi”.

La spinta tecnologica
“Per le persone che si occupano di tecnologia è abbastanza normale dire che un progetto di

cooperative working trova in essa il fattore abilitante e che eventuali limiti vanno ricercati altrove”, dice Silvio Sorrentino (nella foto), direttore sistemi informativi di Corepla. “È proprio “altrove” che va fatto capire questo. A mio avviso la tecnologia ormai è in grado di supportare qualunque strategia di business, qualunque processo. Ma se questi non sono chiari e ben definiti, la tecnologia può anche risultare fallimentare”. “E nel panorama tecnologico non sempre è facile orientarsi”, aggiunge Sorrentino al quale risponde Ivano Zanni (nella foto a sinistra), country manager di Tandberg Italia che dice: “A mio avviso la collaborazione è il mezzo attraverso il quale un’azienda può raggiungere un

obiettivo. La tecnologia è, a sua volta, il mezzo con il quale attuare la collaborazione. Ciò che deve quindi essere chiara fin dall’inizio è la strategia aziendale. Chiarito l’obiettivo, bisogna definire come raggiungerlo e attraverso quali mezzi. La confusione, quindi, non è tanto sulle tecnologie

quanto sul raggiungimento dei risultati”. Claudio Renoldi (nella foto a destra), Ict strategic guidelines di Eni aggiunge: “Oggi la tecnologia, rispetto a vent’anni fa, ha intrinseca una potenzialità enorme ma, a mio avviso, non è decisiva”. Anche se, proprio nell’esperienza Eni, consente di abilitare parecchie innovazioni. Salvatore Carrino (nella foto a sinistra), Ict –

Sol/d- Tlc Infrastructure & Operations di Eni sottolinea infatti come, nel caso di Eni, “le soluzioni di collaboration in genere e la videocomunicazione nello specifico possano contribuire a migliorare i processi, snellire le fasi decisionali e produttive, migliorare il time to market, ridurre i costi e accrescere l’efficienza delle attività in azienda”.
“La videocomunicazione per noi ha significato non solo abbassamento delle spese di trasferta ma, soprattutto, crescita di efficienza nella gestione dei processi in tempi molto più rapidi”, conclude Carrino.
Giudizio positivo sul tema del cooperative working e le tecnologie oggi disponibili anche da parte di Guido Repaci (nella foto), responsabile sistemi informativi di A. Manzoni & C.

“Nel nostro caso la collaborazione è alla base del nostro business. Noi riceviamo i contenuti editoriali e pubblicitari dalle aziende ormai esclusivamente in forma digitale e questo ci consente di adottare e sperimentare sempre nuove tecnologie di cooperazione per raggiungere gradi di efficienza sempre maggiori. Nell’ultimo anno i nostri maggiori sforzi sono andati proprio verso l’adozione di processi e strumenti di unified communication che facilitino lo scambio di informazioni e la collaborazione tra persone attive su un progetto comune”.

Il futuro
“Il cooperative working è uno dei fenomeni portanti del cambiamento, dell’innovazione che coinvolgerà le aziende nei prossimi 5/7 anni”, dice Anna Maria Di Ruscio. Citando i dati di un’analisi di Forrester Research, l’analista di NetConsulting conclude dicendo inoltre che “andranno calando sempre più le operazioni individuali che, seppur supportate da innovative tecnologie, lasceranno il posto a processi di collaborazione più ampi che vedranno coinvolte più risorse che si intersecano in un ecosistema decisamente più complesso e, soprattutto, mobile”.

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