Trump, in contromano sull’autostrada

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Trump, in contromano sull’autostrada

Pubblicato il 22 Mar 2017

di Stefano Uberti Foppa

Tra le tante insicurezze, di ogni tipo, che connotano questi nostri tempi, una certezza almeno emerge forte e chiara: siamo, a livello planetario, nel bel mezzo di una revisione globale dei criteri economici e tecnologici che stanno ridisegnando i tradizionali assetti geopolitici.

Aperture di nuove vie commerciali e aggregazioni di aree geografiche, pur nelle forti spinte nazionalistiche, determinano nuove opportunità di sviluppo economico. Accanto a questo prosegue una “democratizzazione digitale”, cui corrisponde un’inevitabile tendenza di uniformazione, di condivisione e di adeguamento a criteri competitivi globali, che produce forti impatti sociali e profondi cambiamenti culturali. E il tutto sta avvenendo con una rapidità incredibile sotto i nostri occhi, mentre la tecnologia sposta ulteriormente in avanti l’asticella di nuove opportunità di business e scenari di innovazione con software di Intelligenza Artificiale, Internet of Things, robotica intelligente, wearable devices, realtà aumentata e potenza elaborativa (cloud) e di analisi in real time elevatissime a costi abbordabili.

…sacrificando tutto al consenso pubblico e alle promesse della campagna elettorale, non si è accorto di “guidare contromano in autostrada”. C’è tutto un mondo che va in una direzione e lui non vede il passato, il presente e nemmeno il futuro del paese che dovrebbe guidare.

E il nostro Donald che fa? Con la storia dell’”America First”, sacrificando tutto al consenso pubblico e alle promesse della campagna elettorale, non si è accorto di “guidare contromano in autostrada”. C’è tutto un mondo che va in una direzione e lui non vede il passato, il presente e nemmeno il futuro del paese che dovrebbe guidare. Glielo stanno facendo capire i giudici di vari tribunali e numerosi ricorsi in atto nelle diverse Corti di Appello del Paese contro il cosiddetto “muslim ban”, uno dei primi atti della politica anti-immigrazione con cui Trump, dopo i muri anti-messicani che vorrebbe far pagare ai messicani, ha messo al bando, chiudendo l’accesso negli Usa, i cittadini di sette paesi musulmani classificati “indesiderati” (Iraq, Siria – vi ricordate Steve Jobs, figlio di un immigrato siriano? – Iran, Libia, Somalia, Sudan e Yemen). Di recente, proprio pochi giorni fa, il divieto è stato aggiornato con un secondo decreto, escludendo dalla lista l’Iraq, ma la sostanza della politica di chiusura non cambia.
Non coglie, Trump, il passato, perché, come è noto e come gli ha subito ricordato Mark Zuckerberg, Ceo e uno dei cinque fondatori di Facebook (con nonni di provenienza da Germania, Austria e Polonia) e una moglie con parenti in Cina e Vietnam, “Siamo una nazione di immigrati e tutti ne beneficiamo quando le migliori e più brillanti persone nel mondo decidono di vivere, lavorare e contribuire qui negli Usa”. Non coglie, Trump, il presente e il futuro, perché forse non vede che i fondamentali di imprenditore che gli hanno consentito di raggiungere il livello di ricchezza, popolarità e successo andranno oggi, e sempre più domani, calibrati su un ruolo centrale che in questi modelli imprenditoriali avrà la tecnologia in genere e quella digitale in particolare. E se chiudi le porte all’intelligenza diffusa, prima o poi ne soffrirai come paese sul piano dell’innovazione.

La ricchezza delle 62 persone più agiate continua ad aumentare mentre la metà più povera della popolazione mondiale è in stagnazione – fonte: Rapporto Oxfam

Di fatto, la Silicon Valley e molte aziende hi tech americane, sia pur in ordine sparso, chi più a parole chi nei fatti, hanno reagito. Le aziende del digitale hanno bisogno di abbattere ogni tipo di barriera. Spesso trovano cultura, preparazione, talenti, fuori dal paese. La collaborazione è l’essenza dell’innovazione e ogni politica di restrizione che possa minare il ricorso a competenze, professionalità, idee e passioni che possono nascere dalla diversità, diventa un clamoroso autogol che queste aziende non si possono permettere. Ecco allora che accanto a proteste spontanee sorte fin da subito nei principali aeroporti del paese (New York, San Francisco, Seattle, Atlanta), dove alcune persone in entrata negli Usa sono state costrette, dal divieto presidenziale, a tornare nei luoghi di partenza non potendo entrare nel paese, Google attraverso il co-fondatore Sergey Brin (non proprio un vero americano del Nebraska, ma un immigrato russo che con la sua famiglia lasciò l’Unione Sovietica all’età di 6 anni) ha dichiarato che 187 persone dell’azienda, con le rispettive famiglie, sarebbero colpite dal bando presidenziale. Tim Cook, Ceo di Apple ha dichiarato che l’azienda è e sarà open, e che le migliori menti che la compongono arrivano da tutto il mondo; Satya Nadella, immigrato indiano nel 1980 e “incidentalmente” oggi Ceo di Microsoft, ha ribadito l’importanza che l’immigrazione ha avuto per Microsoft, per l’America e per il mondo, e che si possono certamente impostare politiche di sicurezza e protezione dei confini Usa senza però sacrificare libertà di espressione e di religione. “Questo provvedimento – ha detto il Ceo – potrebbe avere seri impatti sul business di Microsoft”. E Amazon ha tenuto a dire che “la diversità è la strada per costruire migliori prodotti e servizi per i clienti e che l’azienda è impegnata ad attrarre i migliori talenti provenienti da ogni parte del mondo”. E Twitter, con il Ceo Jack Dorsey ha tagliato corto dicendo che “l’azienda è fortemente contraria al provvedimento presidenziale, che va contro i nostri principi” e che “stiamo dalla parte degli immigrati di tutto il mondo”.

…la collaborazione è l’essenza dell’innovazione e ogni politica di restrizione che possa minare il ricorso a competenze, professionalità, idee e passioni che possono nascere dalla diversità, diventa un clamoroso autogol che queste aziende non si possono permettere

Insomma, una posizione unitaria per una decisione che va contro il business e l’essenza stessa dei percorsi di sviluppo di queste imprese: scegliere competenze e talenti, per ogni livello dell’organizzazione aziendale, laddove si trovano. E per ribadire, al di là del bando sui 6 paesi, che una politica protezionistica porterebbe l’America in una difficile situazione di complessità e di rallentamento rispetto all’esigenza di innovazione e al ruolo di grande motore per il mondo che l’America ha sempre avuto.

Se la società e i business vanno digitalizzandosi, se l’innovazione sia tecnologica sia di modelli imprenditoriali rappresenta la spinta primaria della trasformazione di questi anni, è il concetto stesso di open innovation che non può tollerare un‘impostazione di chiusura e di autarchia. Anche le aziende utenti, non solo le tech companies, hanno bisogno di confronto e scambio, di collaborazione e contaminazione, soprattutto in questi anni complessi. Il filtro indiscriminato, il privilegio (born in USA) o il limite del luogo di nascita è un autogol clamoroso sulla strada del percorso di innovazione che l’America ha spesso guidato, soprattutto nel settore ICT e digitale in genere. E infine, non vogliamo dimenticare, c’è anche l’aspetto umanitario e di evidenza sociale: il Rapporto dell’organizzazione umanitaria Oxfam, presentato allo scorso World Economic Forum di Davos, ha confermato le previsioni di un paio di anni fa, e cioè che l’1% della popolazione mondiale avrebbe detenuto, entro il 2016, una ricchezza maggiore del restante 99%. E così è stato. Di più: se nel 2010, 388 persone possedevano la stessa ricchezza della metà più povera del mondo, oggi le persone sono 62 e nel 2020 si prevede saranno solo 11. Metà della terra, e in questa circa 800 milioni di persone in assoluta povertà, ha la stessa ricchezza di 62 individui che, tra l’altro, negli ultimi 6 anni hanno visto incrementare il proprio patrimonio di 542 miliardi di dollari. E in quale gruppo pensate possa essere il nostro Donald?

Se pochi privilegiati e poche nazioni continueranno a sfruttare il resto del pianeta per avere sempre maggiore ricchezza e benessere, questo squilibrio farà “saltare il banco”: oltre un certo livello di povertà e di sofferenza (e di violenza) non si può resistere e le persone verranno sempre più a trovare conforto, sicurezza e speranza da noi. Che li accoglieremo. Anche se non piace a Mr. Trump.

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Stefano Uberti Foppa

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Giornalista professionista dal 1989, inizia ad occuparsi di giornalismo nel settore informatico nel 1981, partecipando all'avvio della sede italiana del settimanale Computerworld. Nel 1987 passa al mensile ZeroUno di cui nel 1997 assume la direzione insieme a quella del settimanale PcWeek Italia. Opinion leader riconosciuto nel settore Ict in Italia, è stato direttore responsabile di ZeroUno edito da Ict&Strategy, società del Gruppo Digital360, fino al febbraio 2019. Oggi è una delle principali firme del magazine.

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