Nel mercato cloud italiano, cresciuto del 20% nell’ultimo anno secondo l’Osservatorio PoliMI, l’informazione più significativa riguarda il private cloud: +23%, trainata dall’esigenza crescente di controllo, sicurezza e sovranità del dato.
Questo trend merita attenzione, perché segna una nuova fase di maturità nell’adozione del cloud: superato il dogma del cloud-first e consolidati i modelli ibridi, le imprese stanno progressivamente costruendo architetture in cui ogni componente trova la propria collocazione ottimale in base a costi, compliance, performance e criticità dei processi coinvolti. Il private cloud diventa il perno di questo equilibrio, ovvero la piattaforma su cui concentrare i dati più sensibili, garantire livelli avanzati di controllo operativo e sostenere i processi core del business.
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Perché le aziende scelgono il cloud privato
Secondo Marco Ziglioli, Pre Sales Engineer di CDLAN – cloud provider italiano che da anni affianca le aziende nel loro cloud journey – le ragioni del successo del private cloud – o, più precisamente, della componente privata dei modelli ibridi – si possono ricondurre a tre fattori: governance del dato, performance e prossimità.
I temi della compliance, della sovranità e dei costi – pur centrali in quest’ambito – sono stati ampiamente esplorati negli ultimi anni, con analisi e approfondimenti che ne hanno delineato impatti e implicazioni. Per questo, concentriamo la nostra attenzione su due fattori altrettanto decisivi ma talvolta in penombra: performance e prossimità.
«La stabilità delle performance e la prossimità delle infrastrutture – spiega Marco Ziglioli – sono driver essenziali per l’adozione del private cloud. Le architetture private permettono infatti di disporre di risorse dedicate, bassa latenza e configurazioni ottimizzate per carichi di lavoro critici o per applicazioni legacy che si adattano con difficoltà ai modelli condivisi del cloud pubblico».
La prossimità è anche la base per costruire un rapporto di fiducia, che a sua volta è l’asset più prezioso in quest’ambito. Ziglioli sostiene che «Le aziende cercano partner tecnologici con cui instaurare un rapporto diretto, fondato su trasparenza e vicinanza. Sapere che i propri dati risiedono in infrastrutture localizzate in Italia, gestite da un team con cui è possibile dialogare e che interviene rapidamente in caso di necessità, è un valore sempre più riconosciuto».
Perché il private cloud diventa il nuovo pilastro dell’infrastruttura IT aziendale
L’aspetto forse più interessante dell’evoluzione in atto è che le imprese non stanno semplicemente adottando il cloud privato dopo un decennio di entusiasmo per il modello cloud-first (pubblico), ma lo stanno destinando ai propri asset critici. Parliamo di dati sensibili, applicazioni mission-critical, piattaforme su cui poggia la continuità del business: è per questo che il private cloud sta diventando, di fatto, il fulcro dell’infrastruttura IT aziendale.
Questa direzione è confermata da Marco Ziglioli: «Il private cloud è la scelta d’elezione per i workload mission-critical perché questi richiedono un livello di controllo e di governance che i modelli iper-scalati faticano a offrire. La capacità di controllo deriva da due fattori chiave: una visibilità profonda e la possibilità di costruire un design realmente tailor made, qualcosa che i modelli pubblici, per loro natura standardizzati, non possono garantire al 100%».
La trasformazione in atto ridefinisce quindi il concetto stesso di infrastruttura ibrida, che non è più una “semplice” combinazione di ambienti diversi, ma una strategia di allocazione intelligente. «Oggi si sceglie il cloud pubblico – continua Ziglioli – per servizi generalisti come posta elettronica, telefonia o CRM; si riportano invece in un ambiente privato tutte le applicazioni su cui vive e ruota il business. Non solo quelle definite “mission-critical”, ma anche quelle “data sensitive” perché con le normative vigenti, e di prossima adozione, il controllo del dato sta diventando fondamentale tanto quanto le performance».
Come effettuare una migrazione efficace verso il cloud privato
La riflessione di Marco Ziglioli apre un interrogativo tutt’altro che banale: spostare applicazioni e dati in un ambiente privato – mantenendo però i benefici del cloud – è una scelta sempre più diffusa, ma come si gestisce in concreto?
Del resto, il report Private Cloud di Broadcom indica chiaramente la direzione: il 54% delle aziende considera il cloud privato la destinazione preferita per i nuovi workload, il 65% sta valutando la repatriation dal cloud pubblico. È naturale, quindi, interrogarsi sul processo più corretto per farlo e sugli errori da evitare.
Principali errori da evitare nei progetti di private cloud
L’esperienza di CDLAN rileva diverse criticità, più o meno comuni, nei progetti di migrazione o repatriation verso ambienti privati.
Come sempre, i problemi non nascono dalla tecnologia ma dal modo con cui la si interpreta e la si gestisce. Molte aziende affrontano la migrazione come un semplice spostamento infrastrutturale, dimenticando che senza un’analisi approfondita delle applicazioni, delle loro dipendenze e dei processi che abilitano, il rischio è quello di ritrovarsi in un ambiente nuovo con le stesse inefficienze di prima.
Talvolta la fase di assessment è troppo superficiale, e spesso ci si concentra sugli aspetti tecnologici trascurando le componenti organizzative e di governance. Un’infrastruttura privata offre un livello di controllo superiore, ma solo se è accompagnata da un framework di gestione chiaro: ruoli, permessi, procedure di accesso, piani di backup e di disaster recovery devono essere progettati fin dall’inizio, non inseriti a posteriori.
Infine, CDLAN rileva spesso l’assenza di una strategia di lungo periodo. La scelta di un’infrastruttura private cloud dovrebbe inserirsi in un percorso evolutivo coerente: pensare in ottica ibrida, valutare l’interoperabilità con ambienti pubblici o edge ma soprattutto pianificare la scalabilità. Senza una visione architetturale complessiva, si rischia di creare nuovi silos tecnologici.
L’approccio CDLAN per soluzioni private cloud
CDLAN ha accompagnato numerose aziende nei loro percorsi di adozione del cloud. In un momento in cui molte organizzazioni stanno rivedendo il modello cloud-first, ritiene che il proprio approccio distintivo — una piattaforma modellabile sulle esigenze di ciascun cliente, sostenuta da competenze consulenziali, servizi gestiti e infrastrutture proprietarie Tier IV Compliant localizzate in Italia (Milano e Roma) — possa rappresentare un punto di riferimento per chi vuole ripensare la propria architettura in chiave privata o ibrida.
Per quanto concerne il framework progettuale, il punto di partenza è sempre l’assessment. Marco Ziglioli ne sottolinea il valore non solo per fotografare l’esistente, ma anche per delineare le traiettorie evolutive future. «In questa fase – spiega Ziglioli – lavoriamo a stretto contatto con il team del cliente per capire quali workload devono migrare, come interagiscono e quali performance servono a ciascuno, ma anche per individuare eventuali colli di bottiglia da risolvere. L’analisi non riguarda solo computing e storage, ma comprende anche una progettazione accurata della connettività».
Già in questa fase, inoltre, i tecnici CDLAN iniziano a orientare la scelta dell’architettura più adatta tra tre proposte tecnologiche: una basata su VMware, una open-source basata su Proxmox e una terza, anch’essa open-source, basata su CloudStack con hypervisor KVM.
Per quanto concerne il disegno della soluzione, CDLAN spiega che «la nostra risposta è un equilibrio tra standardizzazione e sartorialità». Per questioni di performance, efficienza, tempi e costi, non si parte dal foglio bianco ma ci si affida a macro-modelli collaudati e a componenti predefinite sia a livello di computing che di archiviazione e comunicazione; al di sopra di tutto ciò si effettua una costruzione e una configurazione completamente su misura. «Questo approccio – prosegue Ziglioli – permette di garantire al cliente il meglio di entrambi i mondi: la sicurezza e l’affidabilità di un’architettura testata e la flessibilità di un ambiente costruito specificamente per le sue esigenze, con il risultato di un’infrastruttura né sovradimensionata né sottodimensionata, ma adeguata a ospitare i workload del cliente con performance, capacità, espandibilità e controllo dei costi».
Naturalmente, il percorso non si esaurisce con la definizione dell’architettura. Una volta disegnato l’ambiente, il progetto entra nelle sue fasi operative — implementazione, test, validazione, ottimizzazione — che determinano la qualità reale dell’infrastruttura prima del go-live. È qui che entra in gioco il lavoro quotidiano dei team tecnici, chiamati a garantire coerenza tra quanto progettato e quanto effettivamente consegnato.
Ma, soprattutto, un private cloud non è mai un progetto a consegna: è un ambiente vivo, che richiede monitoraggio costante, interventi puntuali, aggiornamenti, capacity planning e un presidio continuo sulla sicurezza. In questo contesto, i servizi gestiti assumono un ruolo decisivo, perché permettono alle aziende di trasferire al provider una parte significativa della complessità operativa, mantenendo però pieno controllo e visibilità sul proprio ambiente.












