Hybrid IT

Criteri da considerare e percorsi verso l’IT ibrido

I servizi di cloud pubblico e privato non sono destinati a rimpiazzare i data center delle imprese. Il modello dell’hybrid IT si propone di rendere più efficienti gli ambienti misti, salvaguardando il controllo su dati e sicurezza

Pubblicato il 12 Dic 2017

Il percorso verso l'IT ibrido

L’agilità nella disponibilità dei servizi IT è oggi una necessità per le aziende che vogliono essere competitive. L’arrivo di sempre nuovi operatori tecnologici che sfruttano la rete per offrire servizi graditi ai consumatori, sta ponendo una sfida senza precedenti a società e business consolidati. Il cloud è una risorsa eccellente per attivare ed erogare servizi agli utenti finali, garantendo flessibilità e scalabilità, ma non è la panacea. Al di là di consentire un veloce avvio senza investimenti IT, le rigidità contrattuali e i costi possono rendere il cloud poco conveniente per applicazioni mature o qualora la domanda di servizi IT sia prevedibile e consolidata. Anche sul fronte della sicurezza, le garanzie dei provider sono spesso inadeguate per settori fortemente regolamentati o laddove le normative impongono di avere i dati in un luogo conosciuto, soggetto a una specifica giurisdizione. Non sorprende quindi che il cloud non abbia portato allo spegnimento dei data center aziendali, bensì creato la necessità di gestire ambienti IT ibridi, ottimizzando i servizi erogati internamente con quelli esterni. Lo sviluppo del cloud sta andando di pari passo con le tecnologie per l’automazione dei data center e il rapido provisioning di servizi; un insieme che in Italia ha raggiunto valore economico pari a circa 2 miliardi di euro (dati 2017 dell’Osservatorio Coud&ICT as a service del Politecnico di Milano). L’IT ibrido promette di unire il dinamismo degli ambienti cloud con il livello di controllo dei sistemi interni, superando anche i limiti del cloud ibrido (cloud pubblico e privato insieme) nel supporto di job che non siano omogenei e cloud-ready. Idealmente l’IT ibrido promette supporto anche alle applicazioni legacy, inglobandole in una architettura flessibile e automatizzata, capace di spostare dati e applicazioni tra data center aziendali, sistemi in hosting e servizi cloud in funzione delle differenti esigenze. Secondo l’opinione degli analisti di Moor Insight & Strategy l’IT ibrido costituirà la modalità di gestione predominante per le aziende che non decideranno di spostare tutti i carichi di lavoro nel cloud pubblico.

Primi assaggi di l’hybrid IT

Il primo passo verso l’IT ibrido è in genere costituito dall’impiego dei servizi cloud per le attività di backup e disaster recovery, scelta che non va a interferire con l’operatività del data center, salvo nei casi d’emergenza. Backup e disaster recovery si avvantaggiano delle infrastrutture distribuite e ridondate dei grandi cloud service provider per la memorizzazione off site dei dati, situazione che può richiedere valutazioni di compliance e investimenti negli ambiti della sicurezza e della disponibilità di banda di rete. Poiché l’utilizzo delle risorse, in condizioni normali, è limitato, il cloud risulta più flessibile e conveniente rispetto a installazioni dedicate.

Un passo ulteriore nell’ibridazione dell’IT riguarda il supporto degli ambienti di sviluppo e test. Questo per via della minore criticità rispetto ai software di produzione. Il cloud è scelto non solo perché i nuovi sviluppi devono essere cloud-ready, ma anche perché permette di creare e distruggere macchine virtuali e supporti dati molto velocemente, utilizzando semplici interfacce messe a punto dai provider, senza rischi per l’integrità dei dati e dei sistemi aziendali.

La transizione da un ambiente tradizionale all’IT ibrido si realizza concretamente con interfacce e tool di gestione che semplificano, centralizzano e rendono programmabile il data center. L’obiettivo è mettere insieme monitoraggio e controllo degli ambienti fisici, virtuali e cloud per tutti i compiti di elaborazione, storage e networking. La prospettiva è quella di arrivare a software defined data center, ossia a un’infrastruttura completamente software da cui fare provisioning e orchestrazione dei servizi.

Una checklist per l’IT ibrido

Nella definizione dei piani per l’adozione dell’IT ibrido, gli analisti di Moor consigliano di esaminare le necessità applicative sotto i profili di sicurezza, conformità, prestazioni e controllo dei costi. Occorre insomma sapere quali applicazioni possono essere utilizzate da qualsiasi geografia oppure no in base a vincoli normativi esistenti o in divenire. Va da sé che un eventuale vincolo possa impedire l’utilizzo del cloud pubblico, oppure obbligare a trovare soluzioni tecniche o contrattuali per garantire il rispetto delle norme. Qualora sussista la necessità di non vincolarsi a un provider, l’applicazione dovrà poter essere ospitata nel data center aziendale, nel rispetto delle prescrizioni di legge.

Un aspetto importante riguarda le esigenze “in divenire” dell’IT aziendale. Occorre capire se l’evoluzione digitale del business comporterà nuove esigenze IT e di quale tipo. Per esempio, se il business potrà avvantaggiarsi di app mobili usate da un numero imprecisato di utilizzatori in differenti nazioni, sarà giocoforza considerare le risorse di cloud pubblico, a differenza di locali, rivolti a un numero conosciuto di dipendenti o clienti. Stessa valutazione se il business dovesse trarre vantaggio dalle tecnologie di IoT per analizzare il comportamento di un gran numero di clienti oppure delle linee di produzione, queste ultime molto più prevedibili nella domanda di prestazioni ma anche sensibili ai problemi di latenza nei servizi in rete.

Il passaggio all’ambiente ibrido ha impatto sulle persone. Secondo Moor vanno considerati costi di formazione per il personale IT e di eventuali supporti consulenziali esterni. L’automazione dell’ambiente ibrido promette in ogni caso di ridurre la varietà delle competenze necessarie e quindi di liberare risorse da dedicare allo sviluppo applicativo e alla programmazione del data center virtualizzato.

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