Ricerca e innovazione. Una questione di coraggio

E’ possibile risalire la china che ci classifica fra gli ultimi paesi in termini di capacità di innovazione? Da dove partire per valorizzare l’innovazione che pure esiste in Italia? Come creare un sistema virtuoso dell’innovazione italiana che stenta ad avviarsi a fronte di tanti progetti e di troppe strategie messe a punto dai diversi attori sul territorio? A queste domande cerca di rispondere il direttore di ZeroUno, Stefano Uberti Foppa

Pubblicato il 03 Ott 2007

stefano

Noi ci abbiamo provato. A buttare l’ennesimo “sasso nello stagno” e a parlare di ricerca e innovazione in Italia. Lo abbiamo fatto, però, dando voce ai diretti protagonisti, le aziende, in questo caso dell’offerta tecnologica, che quotidianamente vivono le speranze e le frustrazioni di chi, nel nostro Paese, insiste in una proposta di modello, di prodotto e di servizio che ha alla base una sfida sul piano dell’innovazione. Che poi questa innovazione sia oggi realizzata nel mondo soprattutto attraverso la tecnologia, all’interno della quale quella Ict riveste ormai un ruolo primario in molti settori della ricerca, diventa per queste aziende che operano in Italia un elemento ancora maggiore di sfida.
Qual è il contesto nel quale si confrontano oggi in Italia le aziende che vogliono fare innovazione? Come possono le imprese dell’offerta Ict ma anche quelle che le tecnologie le usano e vogliono avere un approccio innovativo al mercato, sostenere il confronto con paesi che dell’innovazione hanno fatto uno dei propri elementi distintivi di politica industriale e di sviluppo sociale?
Alcune prime risposte emergono dalla nostra Storia di Copertina, ma in questo editoriale vogliamo tentare di tracciare alcune linee di demarcazione del problema. Innanzitutto la situazione attuale. In Italia stiamo faticosamente uscendo da un periodo economico difficile nel quale la già scarsa vitalità del sistema di innovazione italiano, molto articolato, spesso auto referenziato e disperso in centinaia di enti e attori talvolta definiti soprattutto per drenare finanziamenti poco focalizzati e scarsamente riferiti ai risultati finali, è stato messo a dura prova, “registrando un ulteriore rallentamento nella dinamicità dei progetti di innovazione realizzati” (come evidenzia l’Indice del Sistema di Innovazione Regionale italiano 2000-2005 – fonte Idc 2007).
La capacità di innovare in Italia certamente esiste, ma il nostro male, ampiamente diagnosticato e discusso in mille convegni, sta proprio nell’incapacità di fare sistema e comunque di dare attuazione, al di là dei grandi piani di sviluppo (che pure esistono), ad un’azione di smantellamento e di ripensamento dei ruoli degli attori della ricerca in Italia. Certamente alcuni passi avanti sono stati compiuti negli ultimi anni. Questi attori oggi, presenti nell’ambito politico, universitario, in parchi tecnologici, nella filiera regioni-province-comuni che spinge per l’innovazione sul territorio, hanno faticosamente compiuto un essenziale passaggio culturale: accettare il confronto e la valorizzazione della propria ricerca attraverso la valutazione del mercato, attraverso l’usabilità effettiva dei lavori di ricerca effettuati. Il rapporto con le imprese non è più quindi visto come una contaminazione al lavoro del ricercatore, ma, prima ancora che un’opportunità, l’obbligatorio passaggio di validazione del proprio lavoro. E inoltre esistono, per chi a gran voce li ha sempre richiesti, dei piani di razionalizzazione degli incentivi alle imprese che fanno ricerca, nonché dei meccanismi di finanziamento che superano la logica dei singoli segmenti, quando non dei singoli attori, per favorire un meccanismo di finanziamento di “sistema”. Per dare concretezza a tutto questo servono dei piani strategici di selezione di interventi. Sono stati definiti anche questi, con alcuni filoni (energia, mobilità, scienza della vita, made in Italy) individuati come prioritari per la crescita del Paese. Eppure l’Italia oggi, nelle statistiche dell’innovazione (Eurostat ha stilato una classifica dei paesi con capacità innovativa secondo 25 diversi indicatori) è al 26mo posto, nei paesi di coda, insieme a Slovenia, Repubblica Ceca, Spagna e Russia. E se avrete la curiosità di leggere le dichiarazioni degli uomini e delle donne che oggi nelle aziende italiane dell’offerta Ict stanno comunque portando avanti iniziative di innovazione tecnologica, di prodotto, di processo, di approccio al mercato, sentirete che “le imprese italiane sono soprattutto late adopter e anche le aziende che spendono, tendono a farlo agganciandosi soprattutto a vendor internazionali, penalizzando così l’innovazione di aziende italiane” le quali, pur avendo volontà e capacità di innovazione, devono ripensare verso il basso la propria azione per mancanza di domanda. Sì, perché creatività e innovazione esistono in Italia, si diceva, ma spesso questa innovazione non riesce a trovare sbocco su un mercato bloccato, impaurito, dove anche le grandi imprese utenti difficilmente si assumono il rischio di innovare.
E allora da dove partire? Come evitare la giustificata lamentazione della scarsa capacità di creare un sistema virtuoso dell’innovazione italiana pur a fronte di tanti progetti e di troppe strategie messe a punto dai diversi attori sul territorio?
Che sia un lavoro lungo, questo è fuori di dubbio. Non possiamo recuperare anni di “nascondiamoci dietro alla fantasia italiana” in poco tempo. Bisogna agire a più livelli. A nostro avviso almeno su due piani che partono entrambi dalla volontà e dalla possibilità di saper attuare una visione strategica che deve essere portata avanti, sul piano politico, anche a costo di difficoltà, conflittualità, impopolarità. Due piani, si diceva. Il primo è di individuazione dei “fondamentali di un paese”: parliamo della capacità di un esecutivo di governare non dovendo accettare ogni giorno compromessi che ne limitino l’azione ad un galleggiamento politico. E questo vale per ogni tipo di governo che, in termini di innovazione del sistema Paese deve poter attuare con maggiore efficacia di quanto oggi accada, un piano strategico per la valorizzazione della ricerca italiana. In termini pratici significa partire dalla riforma della legge elettorale, che consenta a chi governa di governare davvero, prendendosi le responsabilità della propria azione. Sempre sul piano dei fondamentali di un paese ci mettiamo senz’altro il sistema scolastico-formativo. Quello italiano, che soprattutto nella scuola dell’obbligo e superiore vive oggi basandosi, da un lato, sulla disponibilità e la passione delle persone, dall’altro su logiche di semi-assistenzialismo e di scarsa professionalità, va ripensato per gettare le basi di una competenza diffusa che possa poi adeguatamente indirizzarsi al mondo universitario. E’ giunto il tempo di riqualificare il sistema scuola, mettendo sul tavolo di lavoro un accordo di ampia convergenza tra le diverse parti politiche, per evitare che chi vince le elezioni stravolga ogni volta alcuni elementi definiti nella legislatura precedente. Serve riqualificare il sistema anche basandosi su logiche di meritocrazia, valorizzando, anche economicamente, ruoli, funzioni e competenze, penalizzando laddove queste ultime vengano a mancare; ridefinendo programmi e rendendo ogni livello di scuola, fino all’università, meglio inserita in un confronto e allineamento internazionale pur mantenendo le buone positività, che pure esistono, dell’impostazione di base scolastica italiana.
E il secondo livello? Per il secondo livello…è una questione di coraggio. Servirebbe un’azione di guida, di coordinamento e di attuazione di politiche da parte del governo, attraverso i vari soggetti sul territorio, che punti alla semplificazione del sistema della ricerca, introducendo anche qui logiche meritocratiche, puntando allo snellimento degli enti di trasferimento tecnologico che si sono moltiplicati negli ultimi anni e che hanno contribuito alla parcellizzazione dei (modesti) finanziamenti dedicati alla ricerca. Sappiamo tutti che il sistema è ricco, oltre che di competenze e persone che lavorano duramente, di logiche di potere, privilegio e di realtà inutili che vivono soltanto dell’aggancio politico. Tutto ciò è difficile da scardinare.
Il cambiamento parte, ancora una volta, dai finanziamenti. Soltanto la volontà di rendere il sistema efficace ed incisivo per la competitività del paese, porterà a focalizzare quei finanziamenti laddove effettivamente servono, a scapito di tanti altri fondi inutili, avviando una “pulizia” dell’area della ricerca italiana che tanti, soprattutto imprese e cittadini sensibili all’evoluzione del nostro paese, ormai auspicano.

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