Pmi e Ict: come emergere nella competizione

Il recupero della competitività del Sistema Italia passa necessariamente dall’evoluzione del segmento caratteristico della nostra economia:  le piccole e medie imprese.
Nuovi modelli organizzativi, capacità di accesso a diverse fonti di finanziamento e, ovviamente, propensione all’innovazione, anche tecnologica, rappresentano gli elementi intorno ai quali ruota la capacità delle Pmi nostrane di recuperare il terreno perduto. Ma un’indagine dell’Università Bocconi su 500 aziende mostra ancora investimenti moderati in software applicativo e scarsa attenzione a interventi di natura organizzativa

Pubblicato il 02 Dic 2005

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Affrontiamo ancora una volta (come periodicamente fa ZeroUno) la tematica affascinante e complessa delle piccole e medie imprese italiane, sottolineando che dalla loro evoluzione e dalle relazioni al loro interno, con le imprese maggiori e gli attori che operano sul territorio dipende buona parte della ripresa e della ricollocazione dell’economia italiana nello scenario internazionale.
Il punto di partenza non può che essere la natura locale dei sistemi produttivi su cui si è sviluppato negli ultimi decenni il sistema economico, i cosiddetti distretti oggi in una fase di ripensamento e di riorganizzazione, come conseguenza dei processi di globalizzazione dell’economia.
L’internazionalizzazione, intesa come commercializzazione all’estero dei prodotti, non nasce certo oggi: la novità è invece il processo avanzato di trasferimeno all’estero di fasi di produzione e di posti di lavoro, che restano sotto il controllo di imprese locali. Un processo da tempo in atto soprattutto nei settori caratteristici del made in Italy. Si sta affermando così un nuovo modello di impresa, generalmente media, che anche grazie alla capacità di costruire reti di produzione e commercializzazione internazionali riesce a crescere. Mentre altre imprese che operano sullo stesso territorio, spesso in una logica di subfornitura, non avendo le risorse e le competenze non sono in grado di seguire la strada delle imprese di successo e spesso hanno serie difficoltà di sopravvivenza.
I sistemi locali presentano dunque spesso una doppia faccia di evoluzione e di crisi. Conferma questa visione l’analisi svolta da Tedis – Venice International University, sulle circa 700 imprese distrettuali nel centro-Nord, in settori tradizionali del made in Italy, che fanno parte del suo osservatorio permanente. Sulla base dell’andamento del fatturato vengono raggrupate in quattro tipologie: le imprese vincenti, le aziende in corsa, le prudenti, quelle in difficoltà.
A trainare la competitività vengono indicati tre driver: l’innovazione tecnologica (come insieme di ricerca e svilippo e dunque brevetti); capitale umano e i modelli organizzativi (ossia combinazione di saperi diversi, governo di reti produttive e commerciali estese, innovazione distribuita); la capacità di marketing e comunicazione (come combinazione di brand strategy, design, comunicazione, capacità di interazione con i consumatori finali).
Ciascuno di questi driver contribuisce con un proprio valore specifico. Ad esempio per quanto riguarda l’innovazione tecnologica il valore deriva dallo sfruttamento di brevetti, prodotti e processi innovativi. Ma il vantaggio competitivo delle imprese emerge come combinazione dei tre diversi fattori in un mix coerente con le dinamiche del settore di appartenenza. Come si evidenzia in figura 1

La relazione tra strategia e performance
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Fonte: Tedis

le aziende che presentano le migliori performance in termini di evoluzione del fatturato, sono anche quelle i cui investimenti in Ict, innovazione tecnologica, prodotto e design sono superiori alla media.
Mentre, per contro, sono soprattutto i settori più “tradizionali”, come la moda, a soffrire di minori investimenti in innovazione; in ogni caso il profilo competitivo che emerge è diverso per ciascun settore aziendale: mentre nella moda e nella casa-arredo ha un’influenza maggiore la componente design, nella meccanica prevale il ruolo dell’innovazione tecnologica. Ciò che invece accomuna le imprese in difficoltà, indipendentemente dal settore di appartenenza è il valore sensibilmente inferiore alla media per tutte le voci di investimento. Per quanto riguarda invece la geografia del successo o della difficoltà, le imprese con buone performance sono soprattutto nel Nord-Est, dove tuttavia si concentrano anche le imprese in difficoltà, mentre ha un profilo prudente la maggior parte delle imprese del Nord-Ovest.

Internazionalizzazione e performance
Il campione di imprese che fa parte dell’osservatorio e che rappresenta abbastanza bene il comportamento delle imprese distrettuali, ha una forte cultura dell’internazionalizzazione. Infatti non solo quasi metà del loro fatturato deriva dall’export (45,1%), ma il 39,7% ha una presenza strutturata sui mercati esteri, grazie alla creazione di reti di filiali o consociate commerciali; l’internazionalizzazione riguarda anche i processi produttivi: il 30,7% delle aziende ricorre infatti anche a reti produttive internazionali.
Per queste ultime, le modalità di presenza produttiva sono molteplici: la forma dell’investimento diretto estero, caratteristica delle multinazionali, è adottato da più del 38% delle aziende, mentre il 17% si affida a subfornitori conto terzi e il 63,3% ricorre a fornitori strategici all’estero. Il modello più innovativo, ossia quello delle reti aperte, sembrerebbe essere quello in cui un’alta proiezione internazionale della produzione va di pari passo con un alto presidio sui mercati finali. In questo modello, che consiste nella creazione di relazioni internazionali aperte sia a livello di fornitura, sia di tipo commerciale e di presidio dei mercati di sbocco, si concentra la maggior parte delle aziende vincenti, ma viene adottato anche da molte aziende in difficoltà. Non sembra dunque di per sè garanzia di successo. Di fatto non si riscontra una correlazione univoca tra internazionalizzazione e performance, ma una performance superiore alla media si verifica solo quando l’internazionalizzazione risulta abbinata a investimenti strategici innovativi mirati (vedi figura 2).

Reti aperte e percorsi di innovazione
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Fonte: Tedis

La conclusione che se ne può trarre è che all’interno di una fascia importante di imprese italiane è in atto un processo di adeguamento ai nuovi scenari internazionali, che nessuno ormai pensa di poter ignorare, destinato anche a modificare il rapporto con il territorio d’origine e a metter in rilievo nuove professionalità di management fino ad oggi non presenti o marginali in ambito Pmi. L’evoluzione di questo modello va però accompagnata per essere completata. Se infatti la prima generazione dei distretti ha visto la formazione di sistemi locali di piccola e media impresa prevalentemente per auto-organizzazione, si tratta oggi di sfruttare il potenziale di coordinamento spontaneo convogliandolo in una logica progettuale che veda la presenza di più attori sul territoriorio, che vanno a identificare relazioni innovative. Ciò richiede una nuova tipologia di servizi a sostegno delle funzioni strategiche, politiche territoriali di nuovo tipo a sostegno della creatività e dell’innovazione, strumenti finanziari innovativi. Si tratta, ad esempio, in corrispondenza dell’internazionalizzazione produttiva dei leader, di fare crescere e sostenere imprese capaci di riavviare in modo innovativo il ciclo locale.
Fin qui abbiamo parlato di fattori per il successo delle Pmi che operano in settori tradizionali. Un’emergenza nazionale innegabile è però la carenza di Pmi (e non solo) in settori ad alta tecnologia. La ragione di questa carenza non deriva solo dalla più ridotta presenza di risorse umane altamente qualificate e competenze tecnico-scientifiche, rispetto ad altri paesi europei: oggi forse risorse più qualificate non sarebbero neppure assorbite. La ragione primaria va dunque ricercata nella carenza di incentivazioni, servizi di supporto, finanziamenti mirati, all’interno di una visione progettuale di creazione di poli tecnologici innovativi che per loro natura si sviluppano secondo modelli diversi rispetto al distretto industriale e seguono invece il modello del cosisddetto“cluster tecnologico”. Quest’ultimo si forma, in modo assai meno “spontaneo”, attorno a particolari risorse come università, centri di ricerca, grandi imprese e generalmente richiede politiche pubbliche regionali, locali e nazionali mirate. (E.B.)

FINANZIARE L’INNOVAZIONE

Le Pmi italiane sono in ritardo sul fronte dell’innovazione. Quello di Lucio Stanca, ministro per l’Innovazione e la Tecnologia, è un ritornello ripetuto spesso e volentieri, con più o meno velati richiami al fatto che la ricerca non può essere esclusivamente pubblica ma anche privata e come solo le imprese, a differenza di famiglie e pubblica amministrazione, presentino ancora una limitata dinamicità verso l’adozione delle nuove tecnologie. Le istituzioni, sempre parole di Stanca, il loro compito lo stanno facendo: prima (giugno 2005) la creazione di un fondo di garanzia volto a promuovere investimenti in tecnologie digitali per almeno 3,5 miliardi di euro da parte di oltre 16mila piccole e medie imprese, poi (ottobre 2005) l’annuncio di un nuovo fondo hi-tech di durata decennale e del valore di 100 milioni di euro per promuovere il venture capital nelle piccole e medie realtà che attraverso l’Ict hanno programmi di investimento in aree sotto-utilizzate (per inciso alcune aree del Sud Italia).
Si torna dunque a scommettere su uno dei fenomeni traino della net economy per ridare impulso alla spesa informatica delle Pmi? L’obiettivo del Fondo High-Tech, cui partecipa anche il Ministero per lo Sviluppo e la Coesione Territoriale (nuovo dicastero del secondo governo Berlusconi “dedicato” al Mezzogiorno), è di fatto quello di incentivare gli investitori istituzionali italiani a scommettere in modo dedicato su questo segmento, dando maggior ritorno al capitale di rischio delle imprese finanziate. Stanca, nel dare spessore al progetto, ha ricordato che solo il 5% dei “capitali di ventura” è rivolto all’high-tech e serviva quindi un’azione forte anche in questo campo per ridare impulso all’innovazione. Resta da capire come reagirà a tale disponibilità il mercato (i venture capitalist) e soprattutto se verranno alla luce progetti duraturi nel tempo, ben oltre la copertura assicurata dai fondi pubblici.
Sulla complessa tematica dei finanziamenti alle imprese leggi anche la rubrica “l’Opinione” con un intervento di Elserino Piol.

Capitalizzare i fondi Ue: un problema di competenze?
Innovazione e investimenti It, un binomio che se viene a mancare genera conseguenze negative sulla competitività delle aziende, oggi più che mai. Il problema è noto a tutti e anche a livello di Unione Europea, tanto che le disponibilità previste nell’Agenda di Lisbona per la Società dell’Informazione sono lievitate fino a oltre 200 miliardi di euro, tanto valgono i fondi strutturali (sovvenzioni, prestiti, premi, incentivi fiscali o sussidi) stanziati nel periodo 2000-2006 a supporto dell’innovazione delle piccole (sono circa 19 milioni le realtà europee fino a 9 addetti) e medie imprese e degli enti pubblici locali. Detto che nell’arco temporale 2007-2013, sono pianificati ulteriori 300 miliardi di euro per lo stesso obiettivo, si può dire a ragione che i soldi, sulla carta, non mancano. Il problema di uno scarso ricorso al credito è però ancora evidente e lo dicono i dati che seguono: solo il 45% delle Pmi europee è a conoscenza di questi fondi o è in grado di comprendere quale programma di finanziamento sia più indicato; solo il 4% presenta istanza e solo il 25% di queste ultime riesce ad accedere al finanziamento. L’Italia è lo specchio di questa situazione, e lo dimostrano ancora una volta le cifre: le domande di finanziamento presentate nel 2003 si sono quasi dimezzate rispetto al 2002; nel 2003 sono state concesse agevolazioni per circa 8 miliardi di euro (in calo del 26% rispetto all’anno precedente) ed effettivamente erogati fondi per circa 6 miliardi di euro, il 96% delle imprese non ha mai fatto ricorso a finanziamenti pubblici. Un quadro preoccupante alla luce della necessità impellente, da tutti riconosciuta (imprese comprese), di sfruttare di più le risorse tecnologiche per recuperare competitività; un quadro che deve necessariamente evolvere per evitare che le imprese di piccole dimensioni rimangano “schiave” di una sottocapitalizzazione derivante dalla prassi consolidata di ricorrere a prestiti bancari tradizionali a breve termine.
Una testimonianza importante delle difficoltà di utilizzare fondi pubblici a supporto dell’innovazione, ma anche delle opportunità che si possono sviluppare, arriva anche da Cdo Informatica, l’associazione che raggruppa le imprese Ict della Compagnia delle Opere e che ha dato alla luce Innovazione Più, consorzio di 13 aziende creato per favorire la raccolta di finanziamenti italiani ed europei. Mettere a fattor comune risorse legate alla ricerca e sviluppo in chiave Ict ha portato in dote finanziamenti per alcuni progetti creati dalle aziende del consorzio per un valore complessivo di quasi sei milioni di euro, di cui circa tre a fondo perduto. Sebbene ulteriori sette milioni di euro siano prossimi a supportare altri progetti, dicono i responsabili di Cdo Informatica, l’accesso al credito rimane complesso e richiede un’organizzazione dedicata che molte aziende non possono permettersi. Ne deriviamo che il problema non è la mancanza di finanziamenti in sé quanto la latenza di capacità e di competenze necessarie per cogliere le opportunità disponibili, competenze che possono derivare per esempio da una cultura d’impresa basata sulla cooperazione e la collaborazione fra aziende fino a ieri concorrenti e oggi partner sul mercato globale.

Quando la Banca diventa un partner di canale
Le difficoltà di accesso al credito derivano spesso, come ampiamente descritto, da una scarsa conoscenza della materia in sé, oltre che da ragioni squisitamente “tecniche” legate alla poca propensione ad investire in It. Perché quindi non coniugare le due componenti, strumenti finanziari e soluzioni informatiche, in un unico pacchetto confezionato su misura per le Pmi e teso a facilitare l’introduzione di tecnologie nelle aziende italiane? A questo sono arrivati infatti i principali vendor It che operano in Italia, con iniziative congiunte o progetti realizzati in proprio.
Intesa Soluzioni Tech, per esempio, è il programma lanciato lo scorso luglio da Banca Intesa e Sap Italia per raggiungere le oltre 150.000 piccole e medie imprese clienti dell’istituto bancario, un bacino di utenze a cui portare le soluzioni gestionali del produttore tedesco attraverso un canale privilegiato, quello della banca appunto. È infatti la rete dei gestori di Banca Intesa a proporre agli imprenditori, con il supporto dei partner Sap, una consulenza gratuita per analizzare lo stato del sistema informativo in uso e verificare contemporaneamente l’opportunità di accedere a un “contributo all’innovazione” (promosso da Sap) per l’acquisto della soluzione oggetto di interesse a costi “particolarmente vantaggiosi”. A sei mesi di distanza dall’avvio dell’iniziativa, quali sono le prime risposte dal campo? Da Sap fanno sapere che a fine ottobre erano circa 200 le imprese che avevano richiesto il consulto gratuito e che avevano quindi avviato l’analisi dei punti di debolezza del sistema e dei processi gestiti e l’identificazione delle aree di intervento in seno ai processi aziendali.
Un secondo, esplicito, esempio di quanto sia considerato strategico l’intervento di sostanza del mondo bancario a supporto dell’auspicato processo di innovazione delle imprese porta la firma congiunta di Microsoft (che con Intel e Hp aveva dato il là a giugno al progetto “Innovazione e Finanziamenti”, si veda il box) e di UniCredit. Se uno dei limiti più citati quale freno agli investimenti in tecnologie, dicono in Microsoft, è la mancanza di risorse economiche occorrono finanziamenti accessibili a condizioni agevolate, confezionati sulle particolari esigenze delle aziende e opportunamente completati da servizi collaterali. Che nel caso dell’iniziativa messa a punto con Unicredit Banca sono programmi ad hoc per il canale dei rivenditori, che potranno usufruire di fondi mirati per le spese di anticipo scorte, e servizi di consulenza specialistica a piccole imprese commerciali operanti nel settore It. (G.R.)


PMI E FINANZIAMENTI ALL’INNOVAZIONE: CON EUGA SCENDONO IN CAMPO I BIG DELL’IT
C’è scarso legame fra la disponibilità di fondi strutturali comunitari e la richiesta di sovvenzioni da utilizzare per investire in tecnologie It? La risposta al problema fornita da Hp, Intel e Microsoft è stata quella di mettersi insieme per sviluppare un progetto di portata europea volto a supportare i processi di innovazione delle piccole e medie imprese attraverso l’accesso facilitato al credito, pubblico e privato. Il progetto in questione ha come finalità principale quella di supportare nel lungo periodo le iniziative previste dalla Commissione Europea per migliorare la competitività e promuovere lo sviluppo delle Pmi europee e il primo segno tangibile di questo sforzo si chiama Euga, acronimo di European Union Grants Advisor, nella sostanza un programma che entro il 2007 verrà implementato, con modalità differenti, nei 25 Paesi dell’Unione. Nell’agenda dei lavori ci sono varie attività e un unico obiettivo: aumentare la consapevolezza e la comprensione delle piccole e medie imprese dei fondi stanziati dall’Unione Europea e delle opportunità finanziarie rese disponibili dagli stati membri e facilitare il processo di richiesta per coloro che desiderano usufruire di questi fondi. In Italia Euga si è concretizzata in “Innovazione e Finanziamenti”, iniziativa che i tre vendor di cui sopra hanno promosso a braccetto con Banca Intesa. Il modello operativo prevede nello specifico un portale dedicato (accessibile dai siti Internet italiani delle tre società) con informazioni aggiornate sui fondi disponibili a livello europeo, nazionale e regionale, consulenza finanziaria e tecnica gratuita per individuare i finanziamenti più adatti alle necessità dell’impresa, elaborazione degli studi di fattibilità e successiva richiesta in sede di Commissione Europea o degli Enti nazionali preposti e il coinvolgimento di Associazioni territoriali e di categoria per attività di comunicazione e formazione mirate. A corredo c’è l’intervento di Banca Intesa per rendere disponibile alle Pmi, tramite i partner di canale dei tre vendor, IntesaNova, il progetto da un miliardo di euro avviato dal gruppo bancario per offrire alle aziende finanziamenti a tassi e condizioni agevolati. Ma perché Microsoft, Hp e Intel si sono scomodate tanto? Perché il mercato delle Pmi è quello più appetibile per sviluppare nuovo business, perché è il più popoloso e dinamico (il delta positivo fra 2003 e 2004 è di 90mila nuove imprese) e perché è quello che promette margini di crescita (quanto a domanda di soluzioni It) sulla carta molto promettenti. Affinché il progetto Innovazione e Finanziamenti si realizzi a dovere, però, servono requisiti di base che i rispettivi numeri uno in Italia di Hp, Intel e Microsoft hanno concentrato in un ruolo più proattivo dei vendor. Dall’analisi di Fabio Bolognini, responsabile marketing Imprese di Banca Intesa, sono emersi invece i fattori che devono esortare le Pmi, soprattutto quelle del comparto manufacturing, a credere in iniziative come Euga e nello specifico il fatto che “qualsiasi modello di internalizzazione delle attività aziendali non può prescindere da una dotazione di risorse Ict adeguata e da un approccio evoluto nella gestione dei processi, che si manifesta attraverso politiche di marketing e di relazione mirate, maggiori competenze specifiche e azioni volte a ritagliarsi un’indipendenza commerciale e affermazione del proprio marchio”.
Quali sono i riscontri ottenuti a oggi dal programma Innovazione e Finanziamenti? Ha risposto a questa domanda Glauco Ferrari, responsabile del progetto in Microsoft: “Il bilancio dei primi quattro mesi è confortante e ce lo dicono i 12.000 accessi registrati sul portale pmi.microsoft.com/bussolafinanziamenti in cerca di informazioni e supporto e soprattutto le 200 richieste pervenute alla società di consulenza che ci assiste”. (G.R.)


EBAY: L’ECOMMERCE PER LE MICROIMPRESE
L’88% delle imprese commerciali italiane al dettaglio e all’ingrosso di piccola dimensione, ossia quelle con meno di 10 dipendenti, non ha mai utlizzato l’eCommerce; il 2% l’ha utilizzato in passato, mentre il 10% lo usa tuttora. Questi dati derivano da una ricerca commissionata da eBay.it a Ipsos, realizzata su un campione di 450 imprese, rappresentative della situazione italiana. Le interviste in profondità a 55 imprese che hanno sperimentato l’eCommerce, evidenzia che i tre quarti sono soddisfatti dei risultati ottenuti con la vendita online; mentre le imprese che non l’adottano fanno fatto questa scelta perché considerano i propri prodotti poco adatti ad essere venduti attraverso la Rete. Quasi il 20% invece non vi ricorre non avendovi mai pensato. Tuttavia l’esperienza di eBay dimostra che molte Pmi che si avvalgono del servizio dedicato (www.ebay.it/pmi) vendono anche categorie merceologiche considerate “difficili” per il commercio sulla rete. “Su eBay.it, si vende una moto o uno scooter ogni 20 minuti, un orologio da polso ogni 6 o un oggetto di moda ogni 30 secondi. Nel campo del food, poi, ci sono addirittura casi di Pmi italiane che, attraverso eBay, hanno più che raddoppiato il loro fatturato!”, ricorda Nadia Sillano, Responsabile Sviluppo Commerciale Pmi di eBay Italia.
Il 53% delle imprese intervistate non crede nella possibilità di ampliare, grazie ad Internet, il proprio giro di affari all’estero, mentre chi già fa eCommerce ne coglie le potenzialità come strumento per l’export dei propri prodotti (nel 58%dei casi).
Il 28%, fra coloro che non usano eCommerce, si dichiara però propenso ad utilizzare un nuovo canale online (purché facile da usare) per vendere le giacenze, percentuale che sale al 44% fra coloro che già fanno eCommerce.
La ricerca in sintesi evidenzia che Internet può essere uno strumento di recupero di compettività per la maggior parte delle imprese commerciali anche andando ad affiancare i canali tradizionali. Basta pensarci e provare! (E.B.)

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