Dimensione aziendale, competenze, divario territoriale, ruolo della PA: sono gli elementi critici che, secondo Alfonso Fuggetta, CEO di Cefriel e Full Professor del Politecnico di Milano, rappresentano i principali freni alla trasformazione digitale dell’Italia. Ma anche nelle aree più mature del Paese e dove le pubbliche amministrazioni hanno giocato un importate ruolo abilitatore, i risultati non sono ancora all’altezza delle aspettative e delle sfide. La domanda da porsi è dunque: cosa non ha funzionato e soprattutto a cosa dare priorità di attenzione e di investimento?
“Piccolo non è bello” è una frase cara ad Alfonso Fuggetta, CEO di Cefriel e Full Professor del Politecnico di Milano, che sottolinea da tempo come uno dei problemi strutturali per cui nel nostro paese si fatichi a compiere quel balzo culturale, imprenditoriale e finanziario necessario perché il nostro sistema economico torni a essere competitivo, sia la dimensione delle nostre imprese.
Il nocciolo della questione è noto, la competitività delle imprese, che oggi si declina nella loro capacità di innovazione e che difficilmente può essere intrapresa con forza in realtà molto piccole. “Non è il solo problema, ma certamente la dimensione delle imprese è un grande limite perché non stiamo neanche parlando di PMI: il tessuto imprenditoriale dell’Italia troppo spesso non è costituito da medie e piccole imprese bensì da micro imprese”, ricorda Fuggetta.
E se andiamo a vedere il lato dell’offerta ICT e delle realtà che possono supportare l’innovazione delle aziende, la situazione è uno specchio di quella della domanda, con l’area della consulenza (quella che dovrebbe rappresentare una vera forza di propulsione) caratterizzata da una elevata frammentazione: dagli ultimi dati Assoconsult risulta che l’area IT della consulenza (che per la prima volta ha superato l’area Strategy) è molto frammentata, con 41.000 addetti per 21.900 realtà dove a fronte di alcuni big, internazionali, della consulenza vi è un’ampissima presenza di consulenti individuali o che appartengono a realtà di pochissime unità: “Qual è l’apporto alla trasformazione digitale di un’azienda che questo tipo di realtà può offrire? Presumibilmente non potranno fare altro che lavorare su singoli progetti, ma difficilmente potranno aiutare l’impresa a delineare una strategia che le consenta di aumentare la propria competitività nel suo complesso (perché questo rimane l’obiettivo principale) sfruttando l’innovazione e la trasformazione digitale”.
Indice degli argomenti
Perché l’Italia non genera e non attrae le competenze che servono
Il secondo grande tema aperto è quello delle competenze. La scarsità di competenze adeguate a supportare l’innovazione nelle imprese è una problematica sulla quale siamo in buona compagnia dato che affligge, sebbene con livelli diversi di gravità, tutti i Paesi occidentali, Stati Uniti compresi: “Dai sistemi universitari ed educativi di questi paesi non esce un sufficiente numero di persone capaci di affrontare le sfide che le imprese, e la società in generale, devono oggi fronteggiare”, afferma Fuggetta, che sottolinea come in Italia questo problema sia ancora maggiore a causa del basso numero (rispetto agli altri paesi) di laureati in materie scientifiche: “Il primo problema è quindi che ‘produciamo’ un numero di persone qualificate inferiore anche rispetto a quanto fanno altri”.
Ma questa è solo una faccia della medaglia, come apprendiamo quotidianamente dalle notizie di cronaca, confermate dai dati, cresce il numero dei giovani laureati che cercano lavoro all’estero e solo uno su tre rimpatria (nel 2016 circa 16 mila laureati italiani tra i 25 e i 39 anni hanno lasciato l’Italia e poco più di 5 mila sono rientrati, dati Istat): “E questo è il secondo problema: le nostre imprese e il Paese in generale sono poco attrattivi. Ma non solo non riusciamo a trattenere i giovani che formiamo, non riusciamo neanche ad attrarre i giovani con questo tipo di competenze dai Paesi asiatici o dall’Est Europa”.
La soluzione non è semplice e richiede interventi su più fronti: “È necessaria un’azione coordinata: va riqualificata la domanda pubblica e privata di servizi IT e innovativi in generale, bisogna eliminare la pressione verso il basso delle tariffe e dei salari del settore; rilanciare le domanda di nuove professionalità nelle aziende e nelle amministrazioni pubbliche del Paese; indirizzare e sensibilizzare le scuole superiori per rendere consapevoli i nostri giovani delle opportunità offerte dai diversi percorsi di studio; investire sul sistema educativo a tutti i livelli per rafforzare la capacità formativa del nostro Paese; intervenire a favore del diritto allo studio e per incrementare il livello di scolarizzazione media dei nostri giovani; inventare nuovi modelli di gestione delle competenze e di sviluppo delle professionalità all’interno delle imprese (un tema sul quale Cefriel sta investendo molto)”.
Analizzare le responsabilità della disparità territoriale e agire di conseguenza
Il territorio e il divario tra le diverse aree del paese è l’altra grande problematica sottolineata da Fuggetta e la situazione che ne emerge, seppur ben conosciuta, è preoccupante: “Il grafico dell’Ocse che raffigura il PIL per abitante nelle varie regioni europee è autoesplicativo (figura 1): Lombardia, Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna sono assimilabili alla Baviera, alle aree di Stoccarda e Karlsruhe, alla regione parigina (e sottolineo che della Francia questa è l’unica regione con il PIL più alto); seguono Piemonte, Toscana, Veneto, Lazio (ma prima della crisi anche le prime 3 erano nella fascia 1). Il resto del paese viaggia ai livelli della Bulgaria”.
Grafico dell’Ocse che raffigura il PIL per abitante – Fonte
La riflessione che introduce Fuggetta prende spunto da un libro di Emanuele Felice pubblicato qualche anno fa, Perché il Sud è rimasto indietro. Lo storico trova la risposta alla domanda del titolo nelle classi dirigenti meridionali (dai baroni e possidenti del passato alla classe politica dei nostri giorni) che hanno lavorato nei secoli per mantenere le cose come stanno (chi non ricorda la famosa frase del Gattopardo “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”?). Rifacendosi all’analisi di questo corposo studio, Fuggetta pone la domanda che dovrebbe farsi chi pensa a come sostenere lo sviluppo e la competitività delle imprese: “Qual è il livello di maturità istituzionale, imprenditoriale, diritto, sicurezza nel territorio di una regione? Possiamo parlare di ecosistemi digitali in quelle aree del paese dove esistono problemi di legalità o di funzionamento delle amministrazioni pubbliche? Bisognerebbe definire politiche di sviluppo basate sulla specifica maturità del territorio”.
Una PA trasparente e una nuova relazione Stato-cittadino
Altro argomento critico rilevato da Fuggetta è la pubblica amministrazione: “Quello che dico è un paradosso, ma rappresenta un quadro di riferimento per me importante: il ruolo della pubblica amministrazione NON è tanto quello di fornire servizi ai cittadini. Fascicolo del cittadino, Spid, il sito dell’Agenzia delle Entrate… rendono semplicemente più facile espletare le pratiche burocratiche. Troppo spesso è stata digitalizzata la burocrazia, ma la PA in larga parte dovrebbe essere invisibile: se un ente ha bisogno del documento di un altro ente per erogare una prestazione, i due enti devono comunicare tra loro e trasmettersi le informazioni (che quasi sempre già hanno) direttamente senza che il cittadino passi da un sito web all’altro laddove prima passava da un ufficio fisico all’altro”. La PA dovrebbe materializzarsi quando il cittadino ne ha effettivamente bisogno, come nel caso dei servizi sanitari e assistenziali.
Un tema che è fortemente correlato con quello del ruolo dello Stato oggi (analizzando quindi non solo la dimensione “amministrativa”, ma quella politica e istituzionale). Durante l’intervista il professore ha solo accennato al tema, ma qualche settimana fa ha scritto nel suo blog un post, È tempo di un nuovo sentire, nel quale ha espresso molto chiaramente il suo punto di vista: “Oggi, a torto o a ragione, lo Stato è troppo spesso percepito come una controparte rispetto ai cittadini, una entità aliena che si preoccupa dei parametri di bilancio e della gestione dei mercati finanziari e non dei problemi dei singoli e del territorio. Ovviamente, lo Stato deve anche preoccuparsi degli aspetti macroeconomici, ma deve reinventare e reinterpretare questo suo ruolo tenendo presenti i problemi e le sensibilità delle persone”, scrive, chiamando però tutti ad assumersi le proprie responsabilità: “Una alternativa seria deve basarsi su un forte rilancio positivo, concreto e basato su principi di sussidiarietà e libertà. Lo Stato ti aiuta ad avere i mezzi per darti da fare, per colmare gap di partenza, per realizzare le tue capacità e i tuoi desideri. Ma lo Stato ti rende al tempo stesso responsabile del tuo futuro, ti lascia il compito di essere autore di te stesso, senza in alcun modo appiattire o dirigere dall’alto lo sviluppo della società”.
E per tornare alla dimensione dell’impresa e dello sviluppo economico, Fuggetta raccomanda: “Bisogna liberare l’innovazione, non dirigerla”. E dietro a questa azione liberatoria ci sta l’adeguamento dell’apparato legislativo e normativo alla nuova società che si sta sviluppando, la realizzazione delle infrastrutture, una revisione dell’impianto formativo…
Cosa non ha funzionato?
Ma questo può non essere sufficiente. Fuggetta ricorda infatti l’esperienza di E015, l’ecosistema nato in occasione di Expo 2015 promosso da Regione Lombardia insieme con Confindustria, CCIAA di Milano, Confcommercio, Assolombarda e Unione del Commercio, con il coordinamento tecnico-scientifico di Cefriel, dove c’è stato il forte empowerment da parte di una amministrazione pubblica importante come Regione Lombardia: “È un’esperienza che continua, positiva, ma che deve diffondersi e crescere ancora più velocemente. E in troppe parti di Italia questi percorsi non sono stati nemmeno avviati”.
La tesi di Fuggetta è che “non ci sono ancora forti driver che rendano conveniente e incentivante utilizzare questi approcci innovativi e, simmetricamente, penalizzino l’immobilismo e la conservazione. E i driver sono sostanzialmente due: da un lato la concorrenza che in qualche modo ti obbliga ad adeguarti, altrimenti esci dal mercato; dall’altro bisogna essere incentivati ad adottare il digitale e disincentivati nel continuare ad usare l’analogico. Gli incentivi devono essere importanti, significativi, devono rendere estremamente conveniente passare al digitale. Un esempio? Se digitalizzo un determinato processo ho uno sgravio fiscale, se non lo faccio ho un costo in più”. In sostanza è necessaria quella che Fuggetta definisce una vera e propria “manovra a tenaglia” che accompagna la predisposizione di un terreno favorevole all’innovazione a una serie di attività impositive che costringano le varie realtà a muoversi nella direzione desiderata.
Il Cefriel si ripensa
Concludiamo l’incontro con Fuggetta andando a capire come si sta muovendo una realtà come il Cefriel, tra i cui soci ci sono Università (Politecnico di Milano, Università degli Studi di Milano, Università degli Studi di Milano-Bicocca, Università degli Studi dell’Insubria), Pubblica Amministrazione (Regione Lombardia) e aziende leader multinazionali e che dal 1988 lavora con le imprese per supportarle nei processi di trasformazione, nella ricerca partecipando a progetti internazionali, nella formazione con percorsi mirati, basati su apprendimento attivo, coaching professionale e mentorship. “Stiamo definendo il nuovo piano industriale triennale e quindi questo è per noi un momento di intenso brain storming. Ci sono trend che hanno portata pluriennale e altri più contingenti: sul breve periodo stiamo pensando a piani che ci consentano di fare sempre meglio quello che stiamo già facendo. Sul lungo termine stiamo cercando di immaginare paradigmi nuovi, anche se è ancora presto e non posso dare anticipazioni, diciamo che stiamo lavorando pensando molto al concetto di ecosistema”.
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