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Come trasformare l’azienda in chiave data-driven

Trasformare un’azienda in chiave data-driven richiede un processo articolato, che implica una digital transformation a tutti i livelli e una reale consapevolezza del valore del dato. Ci aiutano a capire come raggiungere questo risultato Davide Donna ed Emanuele Farotti di The Information Lab

Pubblicato il 28 Giu 2022

data-driven

Un’azienda data-driven ha la capacità di affrontare le mutevoli condizioni del mercato o le repentine variazioni delle richieste dei clienti, perché le decisioni operative e strategiche sono prese in base alla valutazione di informazioni concrete ricavate dai dati. Per raggiungere questo obiettivo è necessario aver compiuto una vera transizione digitale, ma non tanto (o non soltanto) in termini di tecnologie, quanto invece di cultura aziendale. Infatti, in un’organizzazione data-driven, il dato è al centro delle strategie perché rappresenta un valore fondamentale, trasversale a ogni livello dell’organizzazione.

Ma come si può realmente trasformare un’azienda in chiave data-driven? Per rispondere a questa domanda, abbiamo chiesto aiuto a Davide Donna e Emanuele Farotti, Managing Partner di The Information Lab, esperti nella creazione della cultura del dato.

Acquisire la consapevolezza del dato

Il primo passaggio nella trasformazione data-driven è acquisire la consapevolezza del valore del dato. “Si deve partire identificando dei champion, ovvero dei gruppi di lavoro in uno o più dipartimenti dell’azienda, che abbiano una forte sponsorship dall’alto”, afferma Davide Donna. “Gli si deve affidare un progetto strategico non particolarmente lungo e complesso, in modo che si possa iniziare a costruire consapevolezza intorno al dato e a far comprendere, a loro ma anche al management, quanto velocemente si possono raggiungere risultati concreti attraverso l’analisi del dato stesso”.

“Da questo punto di partenza si deve costruire una strategia che porti ad avere piccoli gruppi che collaborano tra loro, che si allargano ad altre aree creando gradualmente un gruppo di utenti che facciano da centro di eccellenza. È, poi, attorno a questi “super” utenti che l’azienda deve crescere usando il dato in modo consistente in un numero sempre maggiore di aree. Si tratta di un percorso delicato, perché c’è il rischio che, se non si segue una determinata disciplina, l’analytics diventi semplicemente una procedura che si è obbligati a fare senza riuscire a vederne i valori”.

Obiettivi chiari e misurabili

Questo percorso strutturato, che in The Information Lab chiamano Data Innovation Program, parte dall’ingaggio ad alto livello con il management per definire obiettivi chiari e misurabili, identificando quali sono i gruppi da coinvolgere e quali le progettualità su cui lavorare. In pratica, si tratta di stabilire un piano a lungo termine, di 2 o 3 anni, che inizi con progetti non troppo complesso e poi si dirami su tre grandi aree.

La prima riguarda la scelta delle piattaforme. “Non solo devono essere performanti – sostiene Emanuele Farotti – ma soprattutto agili e adattabili ai continui cambi di esigenza del business. Inoltre, devono poter scalare in funzione della crescita del numero di dati o delle richieste degli utenti. Si devono, poi, definire regole di governance e di accesso alle informazioni che siano adatte alle caratteristiche dell’azienda, perché non esiste il metodo giusto in assoluto”.

L’importanza della formazione

La seconda area riguarda la formazione. “È necessario assicurarsi che ogni persona sia formata – precisa Davide Donna – e non solo a livello tecnico, nell’uso della piattaforma, ma anche che capisca cosa si può ottenere dai dati, che abbia quindi ben chiara la data literacy. È un percorso vivo, che non termina con il training, ma è in progressiva evoluzione perché prevede un continuo incremento delle competenze”.

Per questa ragione è importante monitorare la crescita formativa delle persone in relazione all’utilizzo delle piattaforme fornite. Si deve valutare l’aumento della conoscenza e come viene manipolato il dato, come vengono acquisite le informazioni e, soprattutto, si devono creare delle best practice. “Vuol dire che l’IT apre l’accesso alle piattaforme agli utenti business – prosegue Emanuele Farotti – offrendo loro margini di manovra sui dati senza precedenti. Però, per evitare che tale libertà possa portare a delle criticità, è necessario definire le best practice di utilizzo delle piattaforme”.

Da rimarcare che il software ha sempre rappresentato una barriera per l’utente business, perché è sempre stato complicato e solo i tecnici lo sapevano usare in modo efficace. “La Bi 2.0 ha un po’ cambiato il modo in cui questi software vengono sviluppati” spiega Emanuele Farotti. “Non c’è più un indirizzo prettamente tecnico e sono molto più orientati alla semplicità. Sono tutti drag and drop e usano la data visualization per aiutare l’utente business a individuare più facilmente le informazioni all’interno dei dati. Però per massimizzarne l’utilizzo è necessario prevedere di spendere un po’ di tempo in formazione, in modo da spiegare come ottenere i risultati migliori”.

La community dei “super” utenti

La terza area prevede la creazione di una community che coinvolga tutte le persone che stanno seguendo il progetto di innovazione aziendale. “Queste persone si devono sentire parte importante dell’innovazione – evidenzia Emanuele Farotti – e non devono pensare di subirla, ma di essere dei contributor nella crescita aziendale. Per ottenere questo risultato è necessario creare sistemi di condivisione, attività di engagement continue, che possono essere anche attività di gamification o eventi dove magari dipartimenti presentano ad altri dipartimenti il beneficio di essere diventati data savvy, di poter dedicare molto più tempo all’analisi dei dati perché sono state eliminate tutte le azioni ripetitive e time consuming che prima facevano in continuazione. Si deve fare in modo che le persone si sentano sempre ingaggiate e, quindi, anche qui è necessario avere dei sistemi di monitoraggio”.

Da un piccolo processo grandi risultati

Il Data Innovation Program prevede di iniziare la trasformazione data-driven ottimizzando un processo, magari anche di dimensioni limitate, che presenta delle criticità, soprattutto a livello di comprensione dell’importanza dei dati. “L’enablement non si focalizza tanto sull’insegnare a usare un software – conclude Davide Donna – quanto nello spiegare alle persone perché il dato è importante, come lo si estrapola e quali risposte si possono ottenere dal dato stesso. L’approccio prevede, quindi, di formare i dipendenti sulla data literacy e non solo su come si utilizza un software, con l’obiettivo di ampliare sempre più il numero di persone che abbiano realmente compreso l’importanza del dato”.

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