Più Ict e più competenze per la crescita

Mentre paesi come gli Usa, dove ancora avvengono le principali innovazioni tecnologiche, hanno tratto vantaggio da iniezioni massicce di Ict per aumentare la produttività e l’efficienza, il nostro paese ha continuato a investire nel capitale “sbagliato”, preferendo il tangibile a scapito dell’intangibile, e perdendo progressivamente competitività. Siamo entrati in un circolo vizioso dove non si producono risorse qualificate necessarie alla crescita, con un’ulteriore criticità: se ci fossero non troverebbero facilmente lavoro. La situazione è intricata, ma se ne può uscire con interventi globali su più fronti, suggerisce Thomas Manfredi, statistico presso la Direzione Lavoro e Affari Sociali di Ocse.

Pubblicato il 11 Nov 2013

La rivoluzione informatica a cavallo del nuovo millennio ha definitivamente messo in soffitta il vecchio paradigma fordista degli investimenti in macchinari per incrementare la produttività, rendendo necessario modificare il ruolo dello Stato che non si può più limitare a una regolamentazione del rapporto capitale-lavoro, ma deve offrire una qualità ottima dei beni e dei servizi pubblici, in particolare nel campo dell’istruzione.
“In Italia abbiamo investito troppo nel capitale sbagliato [macchinari di produzione e beni materiali invece di risorse ‘intangibili’ come competenze, istruzione ecc. ndr] con un contributo altissimo, rispetto agli altri paesi, al capitale non Ict e al fattore lavoro, ma deficitario in termini di multifactors produttivity ossia di innovazione alla produttività”, è la sintetica analisi di Thomas Manfredi, statistico presso la Direzione Lavori e Affari Sociali dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico). Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una produttività del lavoro negativa. “L’intangibile fa crescere di più, ma in Italia si investe soprattutto nel tangibile”, aggiunge.
Purtroppo non è una questione semplice da risolvere: non basta infatti incrementare gli investimenti in Ict e in ricerca e sviluppo, se non sono accompagnati da organizzazioni flessibili e decentralizzate, basate su una logica di team working, cosa che, se vogliamo dirla tutta, non è proprio una prerogativa della cultura italiana, molto individualista.
Certo c’è una correlazione fra investimenti in R&D e sviluppo economico, che deriva però anche dalla struttura industriale, dalla dimensione delle imprese e dalla loro capacità di collaborazione.

Figura 1: Andamento della produttività nei paesi del G7

Fonte: Oecd

“Per la definizione delle politiche pubbliche è importante capire bene cause ed effetti”, avverte Manfredi. L’entità della spesa privata in R&D è infatti legata alla dimensione delle imprese, come si verifica in tutte le grandi economie europee (Francia, Germania, Regno Unito). Non è dunque un caso che l’Italia sia carente soprattutto per la componente privata della spesa in ricerca. È anche provato, sostiene Manfredi, che le imprese che investono in R&D tendono maggiormente alla collaborazione, mentre in Italia prevalgono le microimprese legate fra loro esclusivamente da mere relazioni commerciali di mercato. “Quando serve collaborazione per l’R&D l’Italia è carente”, sottolinea Manfredi.
Tornando al modello Usa, nel decennio ’95-2005 si può affermare che Ict e lavoro altamente qualificato hanno concorso ad aumentare di molto la produttività e che un’economia knowledge based richiede sempre più competenze qualificate, generando un circolo virtuoso che si autoalimenta. (figura 2)

Figura 2: Contributi alla produttività nel Usa nel periodo 1995-2005

Fonte: Oecd

In Italia è accaduto invece il contrario sostiene Manfredi: “Assistiamo a un circolo vizioso, dove è scarsa l’offerta di lavoro qualificato, ma altrettanto scarsa è la domanda. L’Ict, in particolare, richiede competenze specifiche in scienze e matematica che la nostra scuola fornisce ancora oggi in modo inadeguato”.
A livello internazionale, il lavoro altamente qualificato in Scienza e tecnologia è aumentato soprattutto nel settore dei servizi, ma in Italia la percentuale del numero di laureati nelle discipline tecnico scientifiche è diminuito.
La prima ragione per la quale i giovani non sono spinti a investire in istruzione è che il lavoro altamente qualificato non è richiesto nel nostro Paese, dove non ci sono vantaggi per gli hi-skilled nel trovare lavoro: la probabilità è equivalente fra laureati e diplomati nel primo quinquennio dopo avere conseguito il titolo di studio, anche se cambia nel quinquennio successivo. Ciò significa che un laureato con elevate competenze rischia di dover aspettare fino a dieci anni per trovare un lavoro stabile che riconosca i suoi skill. “Si tratta di un periodo veramente eccessivo per la transizione fra università e mondo del lavoro, che conferma la mancanza di domanda di lavoro hi-skilled”, commenta Manfredi. Anche in termini retributivi, non ci sono vantaggi sensibili per i giovani con alte qualifiche; i salari più elevati sono ancora legati all’anzianità lavorativa (spesso a prescindere dalle effettive capacità e competenze). Sarebbe questa una conseguenza, secondo Manfredi, “degli scarsi investimenti in Ict. Se questi fossero adeguati che aiuterebbero a inglobare, trasmettere e condividere il knowledge aziendale nelle organizzazioni, mentre nelle imprese italiane la conoscenza viene ancora trasmessa prevalentemente dalle singole persone, la cui competenza è tanto più riconosciuta quanto maggiore è la loro anzianità aziendale. “Un’ulteriore causa della difficoltà dei giovani hi-skill a trovare in Italia riconoscimento adeguato per le proprie competenze è la dualità del mercato del lavoro [garantito e precario – ndr], dove i costi per la protezione di chi ha un lavoro garantito si scaricano soprattutto sui giovani”.
Una situazione così intricata richiederebbe interventi globali su più fronti, secondo Manfredi che indica la necessità di un ambiente regolatorio efficiente, di servizi pubblici di qualità soprattutto nel campo dell’istruzione. Andrebbe soprattutto aumentata la qualità della formazione in Scienze e Matematica e concepite le università come hub di conoscenza in competizione fra loro. “Servirebbe un sistema fiscale più favorevole al business e al lavoro; con l’attuale impostazione, il capitale viene invece scoraggiato a fare investimenti in Italia ed essendo molto mobile si dirige verso altri paesi dove la legislazione è più favorevole”, aggiunge Manfredi, suggerendo anche incentivi per gli investimenti in Ict e una partecipazione dello Stato agli investimenti privati in R&D, che risulta la parte è più carente. “Negli Usa il 13% della ricerca privata è co-finanziato dal governo, mentre in Europa solo il 7%”, esemplifica, indicando nell’attuazione dell’Agenda Digitale un ulteriore incentivo alla domanda di competenze.

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