Digital Research: Collaboration, Governance, sicurezza e orientamento al business per spingere la Data Science

Tra le principali evidenze della Data Scientist Digital Research il “peso” di una visione ancora molto tradizionale degli strumenti e delle prospettive della Data Science e l’esigenza di far crescere l’organizzazione e il team dei Data Scientist

Pubblicato il 15 Dic 2017

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Un’occasione per una riflessione approfondita sulla figura del Data Scientist e sulla crescente importanza di un uso consapevole dei dati in una logica business driven.
Questi sono i temi principali affrontati in occasione dell’incontro “Effetto Big Data: Diventare Data Scientist è sempre più di moda”, nel corso del quale sono stati presentati i risultati della Data Scientist Digital Research, condotta da Digital 360 su un panel di 80 “professionisti del dato”.

Il dato di partenza è inconfutabile: c’è molta attenzione su queste relativamente nuove figure professionali perché il mercato delle Analytics e i relativi investimenti sono in crescita costante, soprattutto nel mercato delle aziende di grandi dimensioni, come dimostrano le ricerche più recenti, da quella presentata solo pochi giorni fa dalla School of Management del Politecnico di Milano al Data Market Study della Commissione Europa, fino allo studio Gartner, di cui abbiamo parlato in questo articolo, che assegna al Chief Data Officer un ruolo determinante non solo nella Governance dei dati, ma addirittura nel processo di Digital Transformation delle imprese.

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Un bisogno trasversale tra tutti i mercati

Lo scenario è riassunto da Luca Flecchia, manager Data Driven Innovation di P4I Partner4Innovation, che parla di casi d’uso trasversalmente in tutti i mercati, dall’Industria 4.0 (e cita il caso Dallara, di cui ampiamente abbiamo scritto in questi servizi) al mondo del Banking (con Banco Santander che grazie ai dati non solo misura la customer satisfaction, ma attiva servizi di recomendation sui suoi clienti), per arrivare al Retail («Netflix basa tutta la policy di ingaggio sui suoi sottoscrittori a partire dai dati, facendo scegliere un primo set di film e di generi sul quale via via profila ciascun utente») e all’Agrifood, settore nel quale la case history di riferimento è rappresentata da John Deere, che ha addirittura acquistato una società di tecnologia, Blue River Technology, per avvicinarsi al mercato dell’Agricoltura di Precisione.

Servono Data Scientist, dunque.
Ma servono con una logica precisa. E su questo punto Flecchia è rigoroso. I dati vanno presi per quello che sono: un abilitatore tecnologico. Per questo bisogna agire sui dati con obiettivi specifici di business, altrimenti i dati in sé non hanno alcun valore strategico. Non solo. Bisogna agire in coerenza con i propri bisogni in fretta, perché muoversi per primi può essere un differenziale strategico.

Soprattutto bisogna rendersi conto che le complessità aumentano: ragionare su cosa è successo non basta più. Bisogna muoversi verso obiettivi di business.

L’identikit del Data Scientist come emerge dal report

Date queste premesse, la Data Scientist Digital Research ha cercato di capire quale sia l’identitik delle figure professionali che lavorano sui dati.
La ricerca ha interpellato 81 professionisti in diversi settori ad alta intensità di dati, dal sanitario al manifatturiero, dalla Pubblica Amministrazione al Retail.
La prima evidenza, del resto sottolineata anche da Gartner nel suo report dedicato ai CDO, è che ancora il lavoro sui dati è in capo alle figure IT, dagli IT manager ai CIO, mentre ancora minoritario è il peso di chi dichiara un job role come responsabile di Analytics, Business Intelligence, o ancora di analista funzionale.


Che non si tratti tuttavia di un mero problema “lessicale” è dimostrato dalle risultanze successive.
Tra le competenze ritenute importanti per questi professionisti del dato, l’estrazione dei dati è ancora quella preponderante, indicata dal 67% dei rispondenti.

È positivo tuttavia notare che – se pure con un netto distacco – anche la capacità di lavorare in team e le competenze di business, vale a dire due caratteristiche che distinguono un Data Scientist da un Data Analyst, raccolgono insieme il 28 per cento dei consensi.

Bene, ma non benissimo, direbbero i più giovani tra i Data Scientist, soprattutto se si guardano i risultati successivi.
Molti usano strumenti per la Data Visualisation, come QlikView o QlikSense, molti usano suite dedicate, come quelle di Microsoft o SAP, ma tra le pieghe degli “altri strumenti”, indicati dal 42 per cento dei rispondenti, si nascondono i fogli di calcolo, che rappresentano il 47 per cento delle fonti di dati utilizzate.

Dati interni, dati di partner o di terze parti specializzate, sistemi di interazione con i clienti sono il patrimonio cui oggi attingono gli specialisti dei dati, che fanno ancora un uso assai, o forse sarebbe più corretto dire troppo?, limitato di open data o ancora di dati provenienti dall’IoT.

Ma se queste risultanze sembrano essere indice di una ancora relativa immaturità, è altrettanto vero che crescono, all’interno di tutti i progetti varati nell’ambito delle organizzazioni aziendali, le attività correlate ai dati: visualizzazione, certo, ricerca delle fonti, miglioramento della customer experience, ottimizzazione dei processi. Sono tutti obiettivi indicati dalle figure interpellate nella ricerca. Ma qualcuno già parla di data monetization. E questo è un buon segnale.

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