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Dai casi d’uso al ROI: perché le imprese italiane faticano a far crescere i progetti AI



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L’AI in Italia procede a macchia di leopardo, con progetti che devono fare i conti con i limiti culturali e organizzativi. La ricerca SDA Bocconi, realizzata con SAP e una rosa di partner fa il punto.  Andrea Viberti (Altea UP) “Il successo non lo fa l’algoritmo, ma la capacità di portarlo nei processi reali e…

Pubblicato il 13 ott 2025


Altea UP Point of View

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Molte aziende italiane hanno avviato o stanno avviando progetti di intelligenza artificiale senza disporre di competenze interne, risorse tecnologiche e capacità organizzative sufficienti, con aspettative spesso irrealistiche. Lo conferma la ricerca “AI nelle imprese italiane: archetipi di adozione e condizioni di successo” realizzata da SDA Bocconi in collaborazione con SAP e i partner Altea UP, Avvale, Derga e Horsa. I ricercatori, analizzando strategie, barriere e modelli organizzativi, restituiscono una fotografia in chiaroscuro dell’adozione AI in Italia. Il 71% delle aziende non sa scegliere i suoi casi d’uso e il 64% non ha la minima idea di come misurare il ROI. Gli analisti evidenziano come il 58% delle organizzazioni indichi la governance e la qualità dei dati come la sfida più critica, segno che il nodo non è la tecnologia in sé, ma la capacità di costruire le condizioni per trasformarla in valore. La vera sfida non è introdurre un algoritmo, ma fare in modo che diventi parte integrante dei processi aziendali: servono dati affidabili, governance chiara, competenze adeguate e metriche condivise. 

Oltre i falsi miti: cosa serve davvero per adottare l’AI

Gli analisti, nell’esplorare i casi d’uso dell’intelligenza artificiale, sfatano alcune convinzioni diffuse nelle imprese italiane. L’AI non è una commodity da accendere nei processi, né un motore che genera automaticamente valore. La realtà è più complessa: implementare l’AI significa presidiare dimensioni tecnologiche, certo, ma anche organizzative, culturali e legali. Solo così la tecnologia smette di essere un esperimento isolato e diventa parte integrante dei processi aziendali in modo concreto e sostenibile.

«Il valore dell’AI non si misura soltanto nella potenza del modello – osserva Andrea Viberti, CBO di Altea UP -. Se mancano governance e dati affidabili, il rischio è che l’AI rimanga un esercizio sperimentale. Ogni modello o agente, quando viene introdotto in azienda, non è mai perfetto né definitivo: ha bisogno di supervisione, addestramento continuo e regole chiare. All’inizio può sbagliare e, quando sbaglia, il danno è fatto. L’AI non nasce autonoma per definizione: diventa affidabile solo se inserita in un contesto fatto di responsabilità manageriali e processi solidi. Non basta azionarla, perché un algoritmo da solo non garantisce risultati: deve essere accompagnato, educato e monitorato nel tempo. Per questo l’impresa deve prepararsi non solo sul fronte dei dati e della security, ma anche su quello organizzativo: ruoli, controlli, consapevolezza di cosa può accadere. Il ruolo delle persone come supervisori resta fondamentale, anche perché, se ad esempio un agente che fa il matching tra fatture e ordini sbaglia, chi se ne assume la responsabilità? Un algoritmo non lo puoi sgridare né punire. Ecco perché servono processi di controllo a monte, ruoli chiari e metriche condivise che consentano di misurare in maniera oggettiva i risultati».

Cultura digitale e pensiero critico: il vero tallone d’Achille dei progetti AI

Tra i falsi miti e un eccesso di entusiasmo tecnologico, la ricerca SDA Bocconi evidenzia un grosso limite che caratterizza gran parte delle imprese italiane: una scarsa cultura digitale. Perché è vero che alle aziende non mancano i dati. Manca la capacità di sceglierli e usarli per alimentare i progetti AI che devono innestarsi nei processi aziendali e aiutare le organizzazioni a prendere decisioni strategiche. Senza una massa critica di risorse adeguate e senza un pensiero critico, l’AI rischia di non incidere sulla realtà operativa delle aziende e i percorsi di adozione si interrompono prima di produrre valore.

«Le imprese oggi hanno grandi masse di dati ma non basta accumularli: servono cultura e capacità di analisi per trasformarli in decisioni concrete – prosegue Viberti -. In questo momento non vedo paura, vedo hype e la fretta di fare qualcosa senza sapere davvero cosa scegliere. Come partner, la nostra capacità è quella di saper indirizzare il corretto percorso di adozione per ogni azienda: non tanto l’implementazione della tecnologia in sé, ma il change management e la conoscenza dei processi e delle industry. Se ti concentri solo sul modello e non parli il linguaggio del cliente, resti avulso dal contesto. Il nostro ruolo è proprio quella di aiutare a colmare questo vuoto: trasferire competenze, costruire fiducia e accompagnare le persone a usare l’AI come un alleato che rende più intelligenti i processi e più strategico il lavoro quotidiano».

Perché è questo il gap culturale e organizzativo che spesso impedisce di trasformare i progetti AI in valore reale. Usando la metafora del cerotto, i ricercatori spiegano come questo tipo di tecnologia non può applicato sopra sistemi e processi fragili sperando che si autoperfezionino. Senza dati affidabili, una governance chiara e responsabilità definite, si innesca un circolo vizioso in cui modelli e agenti restano confinati alla fase sperimentale perché non funzionali. Al contrario, è negli ERP – in quanto piattaforme capaci di garantire qualità, coerenza e tracciabilità dei dati – che l’AI può trovare le condizioni ideali per diventare una vera leva di trasformazione.

Da standard a personalizzato: come l’AI diventa leva di processo

Gli analisti della SDA Bocconi sottolineano l’importanza di integrare i modelli dentro piattaforme gestionali solide. Di fatto, è negli ERP che i dati diventano affidabili, i processi tracciabili e le responsabilità chiare. Solo in questo contesto l’AI può trasformarsi in valore concreto. Con un punto di attenzione: anche un copilota già addestrato sui processi come Joule di SAP non garantisce risultati out of the box. Serve capire in quali processi attivarlo, come monitorarne l’efficacia e quali ritorni produce. È qui che entra in gioco il ruolo del partner: conosce l’azienda e i suoi processi ma sa anche identificare i casi d’uso dell’AI più funzionali, definire KPI chiari e accompagnare le organizzazioni nella verifica costante dei risultati.

«Joule ti dà un vantaggio perché è già addestrato sui processi SAP: non parti da zero – ribadisce Viberti -: ma non basta accenderlo. Bisogna capire in quali processi ha senso attivarlo, con quali obiettivi e come misurarne i ritorni. E quello che non trovi nello standard lo costruisci sulla Business Technology Platform, che è l’officina dove componi i mattoncini disponibili per cucire l’agente sul processo reale. Non è scrivere codice da capo, ma integrare capacità già pronte. Il punto è che ciò che funziona in demo spesso non regge in produzione se non è progettato con competenze di processo e di piattaforma. La differenza la fa l’esperienza accumulata lavorando su contesti diversi, che un’azienda da sola difficilmente può avere. A questo proposito, il SAP Store offre casi d’uso già pronti, che sono una base utile, ma non sono la fine del percorso. È fondamentale valutare, adattare e modellare queste soluzioni sulle esigenze del cliente. Joule non è un monolite, si appoggia a più engine. Non esiste lo strumento migliore in assoluto, ma quello giusto per il compito giusto. Ecco perché serve un partner preparato e affidabile».

AI e sistemi gestionali: il ruolo decisivo di Altea UP

Nel tessuto industriale italiano, caratterizzato da una forte presenza di medie imprese, gli analisti ribadiscono come l’adozione dell’AI non possa essere affrontata in autonomia. Alle aziende servono competenze specialistiche, risorse tecnologiche e capacità di investimento che difficilmente possono avere al proprio interno. Per questo la via più efficace passa dai produttori di software gestionali e dai loro partner, che diventano i vettori per avviare progetti AI innestati nei processi reali. L’integrazione con gli ERP, dunque, non è solo una scelta tecnica, ma l’unica strada per garantire qualità dei dati, accountability nelle decisioni e sostenibilità dei progetti.

«Quando accompagniamo un’azienda in un progetto di AI, il punto di partenza è sempre un’analisi chiara degli obiettivi – conclude Viberti -. Non si tratta di introdurre algoritmi a caso, ma di capire quali attività ricorsive possono essere automatizzate per liberare tempo e quali processi possono generare quick win riducendo al minimo i rischi di insuccesso. L’AI è un alleato: non elimina posti di lavoro, libera risorse da task a basso valore e permette di spostarle su attività strategiche e creative. Il ruolo del partner è decisivo per guidare il change management, aiutare le organizzazioni a integrare progressivamente l’AI e a costruire fiducia intorno ai nuovi strumenti. Il nostro lavoro è proprio questo: aiutare i clienti a scegliere i casi d’uso più adatti, prepararli sui dati e sulla governance e accompagnarli in un percorso che porti benefici concreti e misurabili».

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