Il giornalismo partecipativo

Uno dei comparti in cui la blogsfera sta avendo un forte impatto è quello dell’editoria dove sta emergendo  un nuovo modello di business che tiene conto di questa nuova modalità di comunicazione. E anche nel mondo universitario, i blog sono all’origine di alcuni importanti cambiamenti…

Pubblicato il 24 Ott 2006

Il modello di business dell’editoria, nato con la Bibbia di Gutemberg, è concettualmente rimasto da allora quello di un “gruppo di potere” ristretto che possiede la rotativa per stampare e decide cosa far sapere alle masse: è il mondo del MainStream Media, che concentra l’informazione tra i pochi che possono decidere quando distribuirla e a chi (l’azienda o il potere può distillarla sulla base della “necessità di conoscere” fra clienti, investitori o dipendenti e decidere quando “pubblicarla” o far avvenire la fuga di notizie). Non solo, ma questo modello esercita anche il potere di intermediare le fonti: queste vengono citate se e come l’editore lo decide e, se non soddisfatte, possono al massimo scrivergli una lettera.
La blogsfera cambia tutto: abilita chiunque, anche la stessa fonte, anche lo stesso lettore, a diventare concettualmente l’editore di se stesso nel tempo e al costo di collegamento di un computer a un servizio di blogging in hosting. Il nuovo potere di collaborazione di massa dei blogger diventa un nuovo modello di editoria in cui fonte-editore o lettore-editore diventano figure persino di volta a volta intercambiabili, dando vita al giornalismo partecipativo. Questo nuovo modello di editoria si finanzia sulla pubblicità in base all’audience che raggiunge nella blogsfera, competendo col vecchio gruppo di potere dell’editoria tradizionale e sottraendogli risorse. Così il modello peer (aggregazioni e confronti tra utenti di uguale livello) non solo tende a disintermediare il modello tradizionale, ma ad abbattere il muro fra pubblicità e pubblico: in altre parole rovescia come un guanto il modello stesso di business del MainStream Media, col nuovo paradigma Media delle masse.
Sia ben chiaro l’intento didascalico della contrapposizione vecchio e nuovo modello editoriale. Non stiamo prevedendo un futuro della distribuzione di notizie e informazioni in cui il giornalismo partecipativo soppianterà quello accentrato dall’editore, anche se vedremo che esistono già alcuni esempi di sperimentazioni e di successi. Registriamo semplicemente che il modello peer ha il potenziale per affiancare quello tradizionale e che il business dell’editoria sta sul cosiddetto “bleeding edge” rispetto ad altri settori nello sperimentare come riposizionarsi in co-presenza di un potere derivante dalla collaborazione di massa sulle informazioni. Val piuttosto la pena ricercare fra i segnali di crisi all’orizzonte nell’industria della notizia stampata, che non mancano (soprattutto i quotidiani), quali siano riconducibili o innescati dall’effetto “opportunità blogsfera”.

Come cambia il mercato dell’editoria
Secondo l’Economist c’è ormai “consenso sul fatto che le testate dei giornali sopravviveranno, a lungo termine, solo reinventandosi su piattaforma Internet, magari con dispositivi portabili o gli stessi cellulari”. In questa prospettiva di “andare online” nel medio periodo, emergono tre livelli di priorità: la profittabilità, l’aggiustamento dei contenuti (e qui gioca il posizionamento del giornalismo partecipativo all’interno della testata) e l’organizzazione più orientata commercialmente.
La profittabilità è “il” problema. Gli editori pessimisti dicono che un lettore di carta stampata ne vale fra 20 e 100 online, gli “ottimisti” ritengono ne bastino 10. Con un 2005 chiusosi male un po’ per tutti, la mosca bianca è Schibsted (www.schibsted.no), editore in Oslo, che ha portato a casa un 35% di profitti operativi da Internet con due ricette: differenziare (con un motore di ricerca www.sesam.no, che in Scandinavia compete con Google e un portale pubblicitario, www.finn.no/finn) e soprattutto “disintermediare gli aggregatori di notizie”, Google News e Yahoo in testa, che si accaparrano il fatturato dei banner pubblicitari della loro pagina che, cliccata, porta alla notizia, per stornare qualche centesimo al giornale che la pubblica. Far arrivare il visitatore alla notizia da un proprio portale fa invece la differenza (19.000€ per 24 ore per banner), e Schibsted ci riesce per tre quarti dei propri accessi. La sua strada verso un’editoria di notizie profittevole online è dunque costruire un ibrido con servizi di ricerca e di pubblicità.

Nell’evoluzione locale dei contenuti gioca un ruolo il giornalismo partecipativo. Le notizie nazionali e internazionali diventano via via una a commodity, nel senso che ci sono sempre due o tre giornali intercambiabili e il lettore non tende poi tanto a scegliere in funzione della validità dei servizi aggiunti a commento dei nudi comunicati Reuters. Ciò che fa vendere è invece il localismo. Dice la ricerca iMedia: “La gente cerca da un giornale opportunità per aver più soldi (casa, impiego, investimenti) e informazioni sugli eventi della comunità (cosa si può fare stasera)”. Ecco allora la sinergia cui ricorrono i pubblicitari del New York Times, sezione real estate, con le micro news sul vicinato a East Side New York (www.lockhartsteele.com). A Beaufort, South Carolina, quartiere di Bluffton, il gruppo Morris Communication, oltre a un giornale gratuito ha lanciato un suo sito www.blufftontoday.com, in cui sperimenta il giornalismo partecipativo, ospitando i blog di lettori-editori, con foto e informazione locale. Così anche , in Corea, e così lo stesso Schibsted in Norvegia.

A proposito: anche il nostro sito www.zerounoweb.it ha da tempo sposato la tesi di complementare la rivista cartacea con una serie di “servizi di utilità” per i lettori (ricerche, forum, inchieste). E a breve apriremo il nostro blog per un confronto serrato con voi.

UNIVERSITÀ DI ÉLITE: FINE DEL VANTAGGIO COMPETITIVO?
Il “modello di business” delle università, azzardiamo, è (principalmente) un circuito virtuoso fra influenza intellettuale degli accademici che ne fanno parte; il brand che ne viene conseguentemente promosso; la capacità d’attrazione sui migliori studenti; e il conseguente valore e successo degli “alumni” che vengono sfornati negli anni. Ci aspetteremmo dunque che un’università, sia tanto più ai vertici quanto maggiore capacità dimostri nel creare e trattenere un gruppo coi migliori talenti accademici, per le sinergie e gli stimoli che l’appartenenza a un gruppo di eccellenza offre alla produzione intellettuale del singolo professore. Orbene un working paper del National Bureau of Economic Research di Aprile 2006, autore fra gli altri Luigi Zingales, University of Chicago, ha per titolo la seguente domanda: “Are elite universities losing their competitive edge?”. E la risposta dello studio è si. C’era in passato una forte correlazione fra la produttività intellettuale di un professore e il livello del gruppo di appartenenza: negli anni ‘70 un professore di economia che si fosse trasferito ad Harvard da una università a caso non fra le prime 25, mediamente avrebbe raddoppiato la sua produttività nella ricerca. E non c’è più: la forte correlazione si è indebolita negli anni ‘80 per svanire praticamente del tutto col nuovo millennio.
La spiegazione sta nella circolazione di informazioni sempre più veloce che rende la locazione fisica non più essenziale per consentire agli economisti di tutte le università l’accesso ai migliori cervelli nel loro campo. E da un paio d’anni, e più specificamente, sta nel tempo crescente che un professore di economia passa … nella blogsfera. Perché, lo scrive l’Economist, gli economisti dei circoli accademici spendono ore, giornalmente, a scrivere blog. Brad DeLong della Berkeley spiega che fa l’econoblogger (il sito è www.delong.type-pad.com) perché la blogsfera è “un posto al sole nel gioco dell’influenza intellettuale”. Ecco l’effetto blogsfera nel mondo universitario: con la sua rete neurale (aggregazione fra blog) azzera o quantomeno riduce drasticamente il problema della dispersione del knowledge, che da sempre supera per gravità, secondo i sacri testi, il problema della dispersione del lavoro, a danno delle performance di un’organizzazione aziendale, o universitaria che sia. E non è detto che al modello di business dell’università, anche di élite, cui appartiene l’econoblogger venga un detrimento: sono da mettere sul piatto della bilancia, in negativo, una qualche perdita di produttività per il tempo sottratto dalle attività nella blogsfera, ma, in positivo, la maggior visibilità (e pubblicità) che viene al brand dall’annoverare un professore prominente con un blog super frequentato. Alla fine gli studenti, per il loro corso di studi, cercheranno la vicinanza fisica al professore econoblogger famoso. (R.M.)

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