L’evoluzione del data center costringe l’Europa a ripensare le proprie fondamenta tecnologiche. La crescita della domanda di servizi digitali, l’impatto delle nuove architetture computazionali, il fabbisogno energetico generato dai carichi ad alta intensità e la necessità di infrastrutture non solo più estese ma anche più capillari e sinergiche stanno definendo la mappa delle priorità industriali.
L’evoluzione normativa europea, dal Green Deal all’EED fino ai nuovi pacchetti sull’AI e alla NIS2, procede con velocità e interpretazioni diverse nei vari Paesi. Cambiano gli obblighi energetici, i criteri di efficienza, le procedure autorizzative, le metriche sul PUE e perfino i requisiti di sicurezza e governance dei dati.
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La giungla regolatoria che blocca l’evoluzione dei data center europei
Dalle norme su water cooling, emissioni acustiche e distanze dalle aree residenziali, ai requisiti per le sottostazioni elettriche, fino ai tempi e alle procedure di permitting, la frammentazione regolatoria nazionale genera un mosaico di vincoli che cambia radicalmente da Paese a Paese.
Basti pensare che un’autorizzazione può richiedere sei mesi nei Paesi Bassi e arrivare fino a cinque anni in Italia, rendendo impossibile immaginare un’evoluzione omogenea dell’infrastruttura europea. Il fatto che ogni Paese recepisca le direttive in modi e tempi diversi significa che alcuni applicano criteri più rigidi, altri più permissivi ma anche che mancano metriche tecniche uniformi (PUE, densità, riuso termico, gestione dell’acqua e via dicendo).
Questa disomogeneità tra i vari Paesi evidenzia la necessità di armonizzare linguaggi e metriche tra organismi europei e recepimenti nazionali. L’Europa guarda a modelli più maturi di sovranità digitale: non solo del dato ma anche dell’AI. E poi c’è un tema di competenze specializzate nei data center. In un mercato che cresce più velocemente della disponibilità di talenti, al di fuori del settore manca una chiara consapevolezza del ruolo del CED come nodo critico della competitività europea.

CED: come e perché serve una visione europea condivisa
Questi sono solo alcuni dei tantissimi spunti emersi in occasione del Data Center Outlook 2026-2030, l’evento ospitato nell’ambito della Vertiv Week 2025 a Tognana (Padova). Associazioni di settore, operatori e player si sono riuniti per aprire più tavoli di lavoro per cercare un confronto sull’evoluzione del data center. Le sfide non sono più soltanto tecniche: sono culturali, normative e geopolitiche.
Il punto di partenza? Che oggi ogni Paese europeo affronta gli stessi problemi con tempi, linguaggi e regolazioni differenti, mentre il settore – per sua natura globale e interdipendente – richiede una voce unificata, una collaborazione multilaterale e un orizzonte di sviluppo condiviso per poter competere nella corsa mondiale alle infrastrutture digitali.

Il fil rouge dell’evento? Che l’evoluzione dei data center non può procedere attraverso una somma di iniziative nazionali. È un processo che richiede convergenza semantica, coordinamento operativo e maturità istituzionale.
«L’urgenza di una cornice comune nasce dal fatto che i data center non sono soltanto infrastrutture tecnologiche – ha spiegato Emmanuel Becker, Advisory Board Member Italian Datacenter Association: – sono infrastrutture sistemiche, che richiedono allineamento tra regolazione europea e implementazione nazionale. Un data center non vive in un confine nazionale: ogni attività digitale, dalla piccola impresa alla multinazionale, attraversa più attori, più network, più piattaforme. Senza un’armonizzazione crescente tra policy europee, territori e operatori, sarà impossibile sostenere la futura domanda di capacità computazionale, di energia e di connettività. Lavoriamo in un settore dove nessuna azienda, da sola, può avere tutte le competenze necessarie. Il livello di conoscenza collettiva che emerge quando ci sediamo allo stesso tavolo non è replicabile in nessuna organizzazione individuale. È un valore unico, ed è ciò che permette ai Paesi che arrivano più tardi nella trasformazione digitale di evitare rallentamenti, errori o scelte infrastrutturali subottimali».
Da qui l’idea, emersa con forza durante una delle sessioni della Vertiv Week, che l’Europa debba ragionare come un’unica entità tecnologica. Non un mosaico di Paesi, ma un collettivo capace di produrre massa critica, conoscenza condivisa e potere negoziale.
«Oggi sussiste una difficoltà strutturale oggettiva nel definire priorità, allineare normative e anticipare gli impatti delle nuove direttive europee – ha ribadito Lex Coors, President& Policy Committee Chair, European Data Center Association (EUDCA) -. Questa disomogeneità pesa sia sulle imprese sia sulla capacità del sistema di mantenere competitività a livello globale. L’Europa non soffre di mancanza di visione, ma di asimmetria di implementazione: tra ciò che viene definito a livello comunitario e ciò che viene effettivamente recepito nei singoli Stati. Per questo stiamo lavorando a un quadro comune che metta in relazione temi, priorità, benefici e vincoli dei diversi Paesi usando lo stesso vocabolario e la stessa tassonomia, così da rendere più semplice confrontare approcci, apprendere dalle esperienze altrui ed evitare ritardi o errori già emersi in altre aree dell’Unione. Solo un coordinamento multilivello europeo, nazionale e locale può garantire un’evoluzione del data center coerente con la capacità digitale europea dei prossimi anni.
Evoluzione dei data center europei: verso un framework condiviso
La mancanza di omogeneità tra gli Stati membri è un freno strutturale che impatta operatività, investimenti e tempi di sviluppo delle infrastrutture. Le normative europee – dal Green Deal alla Energy Efficiency Directive, fino alle nuove direttive sull’AI – vengono recepite con velocità, modalità e interpretazioni differenti nei vari Paesi. A questo si aggiunge la frammentazione linguistica, semantica e tecnica con cui ogni mercato descrive gli stessi problemi in modo diverso: dall’efficienza energetica ai requisiti di sicurezza, dai criteri ESG alle metriche per la valutazione della capacità computazionale. Per gli operatori del settore questo significa che non esiste un’unica via per l’evoluzione dei data center, ma una costellazione di regole che cambiano da confine a confine. Mentre Stati Uniti, Asia e Medio Oriente stanno accelerando in modo coordinato, creando ecosistemi normativi e industriali più lineari e prevedibili, l’Europa sta rendendosi conto solo ora che deve cambiare visione e strategia.
Da qui nasce l’idea di creare un framework a livello europeo che raccolga in un quadro comune i temi chiave Paese per Paese usando lo stesso lessico, gli stessi indicatori e la stessa tassonomia. La chiave della proposta è definire un modello di riferimento condiviso per confrontare gli approcci, monitorare l’evoluzione delle policy, identificare criticità e accelerare le decisioni strategiche. Il messaggio? Se come singole nazioni non abbiamo possibilità di reggere la competizione, come Europa unita, l’economia di scala cambia radicalmente. Per capire meglio l’ordine numerico: oggi nel mondo si contano 10.332 data center, di cui più di 2.200 in Europa (fonte: Position Paper “L’Italia dei data center. Energia, efficienza, sostenibilità per la transizione digitale” realizzato da TEHA Group in collaborazione con A2A, Settembre 2025).
«Provengo da un Paese ancora classificato come Tier 2 nell’ecosistema europeo dei data center, cioè un’area verso cui l’industria sta iniziando a espandersi – ha detto Piotr Kowalski, Managing Director della Polish Data Center Association (PLDCA) -. Negli ultimi anni abbiamo però assistito a un’accelerazione significativa: il confronto continuo con le associazioni più mature ci ha permesso di colmare rapidamente molte distanze e di essere riconosciuti dai policy maker come interlocutori legittimi del settore. Il tema non riguarda solo la crescita dei singoli Paesi. L’AI and Cloud Development Act punta a triplicare la capacità dei data center europei nei prossimi 5-7 anni, con investimenti stimati fino a 300 miliardi di euro. È una sfida che può generare valore in tutte le economie dell’Unione, ma che offre ai Paesi Tier 2 un’opportunità particolarmente rilevante di posizionamento infrastrutturale. Ed è qui che la collaborazione diventa un fattore abilitante. Il nostro settore non ha confini: i dati sono globali, circolano liberamente. In Europa affrontiamo opportunità e sfide simili: è fondamentale lavorare insieme e avere una voce unificata su come parliamo dell’evoluzione dei data center e di come la spieghiamo ai policy maker, all’opinione pubblica e ai consumatori».
Il ruolo sistemico del data center nell’architettura economica europea
La tavola rotonda “Building a Collective Voice” ha messo in luce un’altra variabile strategica: la capacità computazionale come nuovo motore di prosperità economica. Un concetto che va interpretato sia nella sua dimensione macroeconomica sia nell’impatto quotidiano sulla vita digitale di cittadini e imprese.
«I data center sono l’infrastruttura invisibile che sostiene tutto – ha commentato Luisa Candiani, Head of Data Centres Programme di TechUK –. Ogni attività che svolgiamo online, dalla geo-localizzazione alla gestione di un negozio, dai pagamenti digitali alla ricerca scientifica, attraversa un data center. I data center sono invisibili ai cittadini ma la presenza di una capacità computazionale forte non è un vantaggio marginale, ma un indicatore diretto della prosperità di un Paese. L’analogia con la Rivoluzione Industriale è chiara: come carbone ed energia abilitarono i modelli produttivi del XIX secolo, così oggi l’elaborazione dei dati, potenziata da AI, cloud e high-density computing, abilita competitività nelle filiere chiave: farmaceutica, finanza, manifatturiero avanzato, servizi locali e via dicendo. È la disponibilità di calcolo, non la mera presenza di server, a determinare la capacità di innovare, scalare e attrarre investimenti. Costruiamo data center perché la società richiede servizi digitali sempre più intensivi e i consumi energetici crescono perché cresce la domanda di servizi. La narrativa semplificata che lega data center ed energia manca del contesto sistemico: il digitale non è un consumo accessorio, ma il tessuto operativo su cui si muove l’intera economia europea».
Il nodo delle competenze
La riflessione si è poi spostata sul tema delle competenze. Non solo la crescita del settore è più rapida dell’offerta di profili STEM, ma l’industria dei data center rimane poco conosciuta, soprattutto tra i giovani.
«Il data center non è un argomento sexy – ha ironizzato Candiani -: ancora oggi avete mai sentito un giovane aspirare a lavorare in un data center? Dobbiamo cambiare la narrativa sui data center, in quanto settore mission critical, ricco di sfide tecnologiche e professionali, in cui non si smette mai di imparare. Rendere visibile il valore di questa industria dovrebbe essere parte integrante della strategia europea. La scarsità di talenti è un fattore di vulnerabilità strutturale. In un data center lavorano elettricisti, tecnici HVAC, specialisti della sicurezza, competenze IT e ingegneristiche altamente qualificate. Ecco perché tutte le associazioni nazionali mettono la formazione nelle prime tre priorità, perché senza persone non c’è capacità computazionale e senza capacità computazionale non c’è competitività».

Energia, geopolitica e talenti: la corsa europea per sostenere l’era dell’AI
Un altro tema importante emerso durante l’evento è come l’adozione dell’AI generativa stia accelerando la domanda di capacità computazionale a ritmi incompatibili con la disponibilità elettrica prevista nei piani attuali.
«L’Europa sta aggiornando la propria rete elettrica e prevede di aggiungere circa 56 gigawatt di capacità entro il 2030 – ha ricordato Becker -. Il problema è che quel piano è stato scritto prima dell’avvento della GenAI e oggi i requisiti sono completamente diversi. In parallelo, c’è un’altra iniziativa europea su small e advanced modular reactors, di cui faccio parte in un consiglio europeo dedicato. Il problema è che il primo reattore è previsto operativo nel 2034. Se guardiamo all’economia e alla corsa all’AI annunciata da Stati Uniti e Cina, abbiamo quattro anni per colmare il gap e fare qualcosa. Stiamo già facendo fatica con la potenza disponibile, mentre il nucleare – per chi lo vuole nel mix insieme a solare e vento – arriverà comunque troppo tardi. Abbiamo pochissima finestra d’azione. È un adesso o mai più: o aumentiamo la capacità ora, oppure resteremo indietro, forse irrimediabilmente».
Una prospettiva condivisa anche da Paesi che hanno fatto della strategia energetica nucleare il cardine della propria competitività infrastrutturale.
«In Polonia stiamo investendo in una flotta di 24 reattori modulari di nuova generazione – ha fatto notare Kowalski – per decarbonizzare la rete e garantire un base-load stabile, in un Paese con poco sole e vento irregolare. Il 92% della popolazione sostiene il nucleare. Potremmo diventare i primi in Europa a implementare questa tecnologia su larga scala».
La nuova partita europea si gioca sulla sovranità digitale e geopolitica
Ma l’energia è solo una parte del problema. Il punto è comprendere se l’Europa stia costruendo un ecosistema competitivo a livello continentale o mondiale, considerando il nesso tra sovranità dei dati e sviluppo infrastrutturale. Di fatto, il GDPR, spesso percepito come un vincolo, in realtà ha impedito che la capacità digitale europea venisse drenata verso i soli mega hub statunitensi, costringendo l’Europa a sviluppare la propria infrastruttura locale, a formare competenze e a costruire filiere nazionali e regionali. Si tratta di sovranità selettiva, non ideologica: alcuni dati devono restare in territorio europeo per ragioni di sicurezza e resilienza, altri possono fluire liberamente in un mercato digitale globale.
«Il digitale è senza confini: ciò che costruiamo oggi può diventare infrastruttura non solo per l’Europa, ma per molti altri Paesi – ha commentato Coors -. L’AI and Cloud Development Act va proprio in questa direzione, perché promuove una crescita bilanciata delle infrastrutture sul territorio e, allo stesso tempo, un quadro di sovranità dei dati che consente agli Stati membri di conservare in Europa gli asset più sensibili, trasformando il nostro continente in un vero polo digitale, dove creatività e innovazione possono esprimersi senza dover dipendere da hub extraeuropei».
Nasce la politica industriale del dato
In sintesi, da qui ai prossimi 5 anni, la competitività europea dipenderà dalla capacità di integrare in un unico disegno strategico tre elementi inscindibili:
- potenza di calcolo,
- energia disponibile e programmabile,
- interconnessione ad alta densità.
Sarà questa la triade che definirà il nuovo concetto di infrastruttura critica.

«Il dato non è più un output tecnologico, ma un vero asset industriale – ha concluso Stefano Mozzato, VP marketing Emea di Vertiv -. L’Europa non potrà quindi limitarsi a favorire investimenti o iter autorizzativi più rapidi: dovrà coordinare policy energetiche, piani di sviluppo digitale, modelli di sovranità e percorsi di formazione avanzata. In gioco non c’è solo l’evoluzione dei CED, ma la capacità dell’Europa di sostenere filiere industriali sempre più data-driven, attrarre nuovi attori globali e garantire autonomia tecnologica in un contesto geopolitico che richiede velocità, visione e coesione. Questo perché l’evoluzione del data center non è più un tema di componenti, ma di connessione dei punti. Oggi parliamo di un’unica unità di calcolo che integra potenza, termica, distribuzione elettrica, continuità e competenze. La velocità non è più quella del fast forward che conoscevamo: siamo in un’epoca di salti 10X, 15X, 20X. Per questo stiamo progettando infrastrutture pensate per più generazioni tecnologiche future, non solo per quella attuale. Ciò che costruiamo ora dovrà sostenere carichi, densità e architetture di cui ancora non abbiamo contezza. La politica industriale del dato nasce qui: nella capacità di unire tecnologia, energia e persone in un modello di sviluppo che permetta all’Europa di restare rilevante nella prossima ondata digitale».
















