Quanto si usano i big data in Italia? Poco e male a giudicare dai risultati preliminari di una ricerca presentata da SDA Bocconi School of Management intervistando un campione di 117 aziende, da cui non risultano applicazioni sostanzialmente nuove rispetto a quelle che già si fanno con gli “small data” ossia i database e gli archivi interni. Per distinguere i big data da tutto il resto, Luca Molteni, Liaison manager, Decision Sciences e Business Analytics SDA Bocconi School of Management, fa appello alla definizione di Gartner che ne sintetizza le qualità con 3V (dalle iniziali delle stesse): “Volume, velocità e varietà – spiega Molteni -. L’aspetto più innovativo è la velocità, ossia la capacità di acquisizione da fonti realtime, mentre gli elevati volumi non sempre sono caratteristici dei big data. La varietà consiste invece nella presenza di dati strutturati e non, quindi, immagini video e testi. Altri aspetti critici dei big data, sono la veridicità, il valore e la visualizzazione, ossia le capacità che consentono di utilizzarli e renderli comprensibili alle persone”.

Il primo aspetto analizzato da SDA Bocconi riguarda chi effettua le analisi dati in azienda: “Per circa un terzo del campione si tratta di persone specializzate interne o di aziende esterne [l’IT conta per il 10%, ndr] – spiega Renata Trinca Colonel, Associate Professor of Practice Decision Sciences e Business Analytics SDA Bocconi School of Management -. Per il 46% si tratta di figure interne ai dipartimenti”. Quest’ultimo è il dato che più indica un utilizzo maturo dei big data. “Per trarre massimo vantaggio l’analista deve lavorare a stretto contatto con chi usa i dati – spiega Molteni -, un lavoro fatto spalla a spalla con le LOB, osservando le ricadute delle analisi e migliorandole nel tempo. Non si ottengono modelli predittivi efficaci senza conoscere a fondo i dati che si utilizzano”.

Un altro punto dell’indagine riguarda la varietà dei dati analizzati: “Le fonti più usate sono quelle tradizionali (figura) solo in fondo all’elenco si collocano dati provenienti da sensori, immagini e video”, precisa Trinca Colonel. A utilizzare i big data sono gli stessi dipartimenti aziendali che già fruiscono di applicazioni analitiche. Nell’ordine sono: marketing/CRM, pianificazione-controllo, vendite, strategia, produzione, sistemi informativi, HR/organizzazione. “L’ambito della produzione compare soltanto al quinto posto pur essendo tra quelli che più trarrebbero vantaggio dai big data, per esempio per la predictive maintenance – spiega Molteni -. In quest’ambito riscontriamo la difficoltà delle aziende di accettare nuovi strumenti in sostituzione dei sistemi di controllo già in uso, scarsamente basati sull’analisi dei dati”.

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Metodologie per l’impiego e la gestione ottimale dei big data
Tipologie di dati e di analisi non brillano di originalità tra le aziende italiane. Secondo la Ricerca, le metodologie più sviluppate riguardano, nell’ordine: il supporto e la gestione dei progetti, la strutturazione formale dei processi di decisione e le analisi di scenario. Più distaccate seguono l’analisi delle decisioni e le simulazioni Montecarlo (metodi computazionali basati sul campionamento casuale per ottenere risultati numerici) come gap da colmare. “Algoritmi noti da anni per analizzare, per esempio, gli abbandoni da parte dei clienti, restano ancora nei desideri di molte imprese – precisa Molteni -. Un contesto che proietta l’adozione dei moderni algoritmi predittivi lontano nel futuro”.