VITA DA CIO

«Rimettere la “T” al centro dell’IT»: la visione di Enrico Andrini, CIO di Bonfiglioli



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Meno slogan e più concretezza tecnica: Enrico Andrini, CIO e Chief Digital Officer di Bonfiglioli, racconta perché l’IT deve recuperare la “T” di Technology. Dal cloud come leva imprescindibile per le medie aziende alla sfida dell’integrazione applicativa, fino al tema della digital employee experience e allo shortage di competenze 

Pubblicato il 16 dic 2025

Vincenzo Zaglio

Direttore ZeroUno



Enrico Andrini, CIO e Chief Digital Officer di Bonfiglioli
Enrico Andrini, CIO e Chief Digital Officer di Bonfiglioli

Per Enrico Andrini, CIO & Chief Digital Officer di Bonfiglioli, il mestiere dell’IT ha bisogno di un bagno di realtà: meno narrazioni astratte, più consapevolezza tecnica. Parla con schiettezza dei limiti del mito dell’ERP unico, dell’importanza dell’integrazione e del ruolo del cloud. Ma soprattutto mette al centro qualcosa che molti trascurano: l’esperienza digitale delle persone. Perché un’IT che funziona non è solo quella che integra, automatizza o migra, ma quella che semplifica la vita di chi lavora ogni giorno. E dove bisogna recuperare la “T” di Information Technology.

Information Technology è anche tecnologia. Perché senti il bisogno di ribadirlo?

Negli anni ho visto perdere un po’ di sensibilità sul valore della tecnologia, quasi come se fosse un elemento che si potesse nascondere o rendere irrilevante. In molte aziende si è parlato tanto di processi, governance, business partnering, dimenticando che l’IT funziona solo se la “tecnologia” viene curata davvero. Il cloud, ad esempio, ha tolto alcune complessità: niente più server room da raffreddare o continuità da garantire in proprio. Ma ha aperto un universo enorme di servizi da conoscere, governare, integrare. Per questo ripeto sempre: “Information Technology is not only technology, but is also technology”. La T non può diventare un dettaglio.

Perché il cloud è diventato imprescindibile per un’azienda come Bonfiglioli?

Perché la complessità dei servizi richiesti dal business era cresciuta oltre quello che un’azienda di medie dimensioni come la nostra poteva gestire on-premise. Ho sempre lavorato in realtà da 500 milioni a più di 1 miliardo di euro di fatturato: abbastanza grandi da volere servizi moderni, ma non abbastanza da sostenere data center proprietari usati nelle grandi multinazionali. Quando il cloud è diventato davvero credibile – parliamo del 2010 – ci sono saltato sopra. Era l’unico modo per fornire infrastrutture adeguate e scalabili senza costruire un mondo on-site insostenibile in termini di costi e competenze. Oggi il nostro budget IT è dominato dagli OPEX: i CAPEX praticamente non esistono più. È un cambio culturale enorme.

Quali benefici concreti avete ottenuto passando al cloud?

Il vantaggio più evidente è la velocità. Con il passaggio a SAP RISE, per esempio, attivare il modulo MES ha richiesto letteralmente un quarto d’ora: una cosa che fino a qualche anno fa avrebbe significato settimane di lavoro, tra installazioni, configurazioni, hardware e test. Questo dà la misura di quanto il cloud abbia cambiato il modo di erogare servizi. Poi ci sono benefici meno appariscenti, ma profondi: la facilità con cui garantiamo un disaster recovery robusto, la possibilità di impostare politiche di backup più intelligenti, la continuità nell’introduzione di nuove funzionalità. Il cloud ti mette dentro un flusso di evoluzione continua: è un miglioramento che non devi più progettare ogni volta, arriva quasi naturalmente. L’approccio CI/CD (Continuos Integration/Continuos Delivery ndr) è un modo completamente diverso di vivere la tecnologia.

Sul mercato però sta avanzando il concetto di cloud repatriation. È un tema per voi?

Onestamente no. Non stiamo valutando un ritorno all’on-premise. Stiamo invece riflettendo sulla prossimità geografica dei data center. Tra Francoforte e Milano c’è differenza e in alcuni use case la latenza conta molto. Il vero tema, però, è un altro: la dipendenza geopolitica. Se domani gli Stati Uniti imponessero restrizioni a Microsoft, AWS o Google, l’Europa si fermerebbe. Fino a poco tempo fa non ci pensavo nemmeno. Oggi sì. Potrebbe aprire spazi per provider europei.

Accanto ai benefici, il cloud porta con sé anche un tema sempre più discusso: la gestione dei costi. Come fai a tenere tutto sotto controllo? Applicate logiche FinOps?

Sul tema FinOps abbiamo un approccio molto pragmatico. Ci sono strumenti sofisticati che promettono un controllo totale sui costi, ma non sarebbe per noi un investimento giustificato. Abbiamo preferito lavorare in modo più diretto: monitoriamo regolarmente i consumi, rimuoviamo ciò che è stato sovradimensionato, utilizziamo le istanze riservate con giudizio e ci siamo abituati a spegnere ciò che non serve più. Nel complesso il nostro cloud è stabile, soprattutto perché i workload non hanno picchi improvvisi, a parte le simulazioni della ricerca e sviluppo, che però pianifichiamo con largo anticipo. La vera incognita è l’intelligenza artificiale: i costi legati ai token, agli agenti che fanno chiamate iterative e ai modelli più o meno sofisticati sono molto variabili. È un terreno su cui dobbiamo ancora costruire un metodo, perché i consumi possono crescere rapidamente e in modo non sempre prevedibile.

La frammentazione applicativa è ormai la norma. Come gestite l’integrazione fra soluzioni diverse?

Appartengo alla generazione che ha creduto nel mito dell’ERP unico, quello che avrebbe fatto tutto. Oggi è chiaro che quel modello non è sostenibile. Attorno all’ERP si sono moltiplicate le soluzioni verticali: supply chain, planning, configuratori, CRM, sistemi di produzione. Questo ha reso l’integrazione la “vera partita”. Per questo abbiamo creato un competence center specifico sull’Enterprise Application Integration. E penso che tra dieci anni il lavoro principale dell’IT sarà orchestrare applicazioni che spesso non avrà neanche scelto direttamente. E per certi aspetti è anche giusto così.

Come gestisci oggi il budget ICT? C’è ancora una distinzione fra un budget per il “run” e un budget per l’innovazione?

Abbiamo abbandonato la logica dei budget con cifre preassegnate che poi venivano ritoccate durante l’anno. Ho introdotto un concetto che chiamo “skeleton budget”: è l’ossatura che serve per far funzionare tutto ciò che non può essere messo in discussione. Se togli qualcosa, da quel budget l’IT “fa fatica a camminare”. Per il resto degli investimenti non lavoriamo più con un portafoglio annuale fisso, ma discutiamo trimestre per trimestre con il CEO e con il management, in base all’andamento dell’azienda. È un modello molto più trasparente e aderente alla realtà. Il progetto MES, per esempio, non era previsto in budget: è emerso da una precisa volontà del nuovo amministratore delegato, lo abbiamo condiviso e siamo partiti. È un modo di lavorare che richiede molta disciplina, ma evita sprechi e mantiene il CIO molto più vicino alle dinamiche del business.

A proposito delle relazioni con il business, come nascono i progetti? Che governance usate?

Abbiamo un modello organizzativo molto strutturato. Ogni mese si riunisce il top management e ogni business unit ha il suo meeting mensile a cui partecipo in modo fisso. Questo mi permette di percepire in anticipo esigenze e criticità e di “vivere” il business. Poi ci sono canali formali per richiedere progetti, che passano attraverso i competence center o arrivano a me quando si parla di iniziative più strategiche.

Per i progetti usate metodologie Agile? In quali casi funzionano meglio?

Sì, abbiamo fatto decine di progetti in Agile, adattandolo alle nostre esigenze. Il modello “puro”, quello che prevede team full-time dedicati per settimane, da noi non era applicabile. Così abbiamo costruito una nostra “versione” dell’Agile: sprint da due settimane, con due giorni di lavoro full-time per ogni membro del team. In questo modo riuscivamo a mantenere continuità operativa nei reparti, senza rinunciare alla velocità del metodo. L’Agile ha funzionato molto bene anche per ridisegnare processi non IT, come quello del budgeting.

Sempre parlando del rapporto fra IT e business, si parla spesso di digital employee experience. Perché per te è così importante cercare di dare alle persone la tecnologia che preferiscono?

Perché la qualità dell’esperienza digitale influisce direttamente sulla produttività e sulla soddisfazione delle persone. Sembra una cosa piccola, ma non lo è: noi permettiamo a tutti di scegliere tra Mac e PC Windows, il che per un’azienda manifatturiera è piuttosto raro. Il TCO è praticamente identico, ma la qualità percepita fa una differenza enorme. Lo stesso vale per i piccoli segnali quotidiani: un ticket che rimane aperto mesi, un problema che scopre l’utente prima dell’IT, una interfaccia che non useresti nemmeno tu. Sono tutte cose che erodono fiducia. Io ho una regola semplice: non voglio obbligare nessuno a lavorare con strumenti che non userei io stesso. E questo atteggiamento, alla lunga, crea un rapporto più sano e più maturo tra IT e business.

Come è organizzata oggi la funzione IT di Bonfiglioli?

La nostra organizzazione IT è strutturata in modo molto chiaro, per competence center. Abbiamo aree specialistiche dedicate alla BI, al PLM, all’AI e Big Data, al Digital Manufacturing, all’integrazione applicativa, alla cybersecurity, alle infrastrutture. È un modello tradizionale, ma molto efficace per un’azienda come la nostra. Non abbiamo introdotto la figura del demand manager: preferiamo un rapporto diretto tra i competence center e le funzioni di business, perché accorcia i tempi, riduce i filtri e responsabilizza tutti. Accanto a questa struttura abbiamo costruito qualcosa che oggi è fondamentale: il nostro Global Capability Center (GCC) in India. Ogni competence center italiano ha un suo “alter ego” indiano, che non è un fornitore esterno ma parte della nostra organizzazione a tutti gli effetti. Non è outsourcing, non è offshoring tradizionale: sono colleghi Bonfiglioli. E questo cambia completamente il modello di collaborazione. Il GCC è nato anni fa, ma oggi pesa più che mai.

Perché?

In Italia stiamo vivendo uno shortage di competenze evidente, soprattutto su SAP, cybersecurity e sviluppo. Cercare un profilo junior può richiedere settimane e spesso con risultati deludenti; in India, per la stessa posizione, in una settimana arrivano 40 curriculum validi. Lì c’è una disponibilità di competenze che qui non riusciamo più a trovare, anche per ragioni demografiche. Per questo il GCC sta diventando una risposta strutturale alle esigenze dell’azienda. Ci permette di crescere, di gestire competenze difficili da reperire, di garantire continuità e qualità.

Quali KPI controlli più spesso per capire se l’IT sta funzionando?

Due in particolare. Il primo è l’uptime dei servizi. Posso accettare un down, ma dobbiamo essere noi dell’IT ad accorgercene prima di tutti. Essere avvisati da un plant che un sistema è fermo è inaccettabile. Il secondo è la gestione dei ticket. Un ticket chiuso senza essere risolto è peggio di un ticket aperto. Inoltre, mi piace controllare a campione i reclami: è il modo migliore per rimanere con i piedi per terra.

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