l’analisi

Senza fiducia non c’è AI: perché la data collaboration resta un nodo irrisolto



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L’intervento di Ciro Cattuto (ISI Foundation) mette in luce perché la data collaboration richiede fiducia, alfabetizzazione e governance solide. La condivisione responsabile dei dati è fondamentale per decisioni tempestive e per un uso dell’AI realmente orientato al bene pubblico

Pubblicato il 15 dic 2025



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La crescente attenzione verso l’adozione dell’intelligenza artificiale e delle analitiche avanzate sta riportando al centro del dibattito un nodo irrisolto: la capacità di attivare forme solide e continuative di data collaboration tra istituzioni, settore privato e cittadini.

È un tema che Ciro Cattuto, Scientific Director della ISI Foundation, ha approfondito nel corso del convegno “Data & Decision Intelligence: pilotare l’AI per usarla davvero!”, organizzato dall’Osservatorio Big Data & Business Analytics del Politecnico di Milano.

Le sue considerazioni nascono dall’esperienza diretta maturata nella gestione della crisi del Covid-19 e mettono in evidenza quanto la qualità delle decisioni pubbliche dipenda dalla possibilità di accedere ai dati giusti nel momento giusto.

La fragilità emersa nel 2020: dati necessari ma non disponibili

All’inizio del 2020, quando l’Italia affrontò le prime settimane di emergenza sanitaria, la mancanza di un’infrastruttura sociale e organizzativa dedicata alla condivisione dei dati emerse con evidenza. Cattuto ricorda «il trauma dell’inizio 2020» e sottolinea che, durante la prima fase della crisi, «i giusti dati non erano a disposizione dei corretti decisori nei momenti necessari». Una constatazione che evidenziò un limite strutturale: il Paese non aveva costruito, «in tempi di pace», quelle capacità organizzative e di governance che avrebbero permesso di mobilitare rapidamente informazioni rilevanti.

Secondo Cattuto, la difficoltà non riguardava le piattaforme tecnologiche, ma l’infrastruttura fatta di persone, processi e ruoli, indispensabile per trasformare i dati disponibili in conoscenza utile. È il punto in cui la data collaboration smette di essere un principio teorico e diventa una necessità operativa.

La misurazione della mobilità durante il lockdown nazionale

Il caso più evidente citato da Cattuto riguarda la difficoltà nel valutare l’impatto reale del lockdown nazionale. Per comprendere la riduzione della mobilità, la presenza di attività essenziali e il comportamento delle diverse fasce della popolazione, era necessario analizzare dati granulari e aggiornati. La misurazione della mobilità residua sarebbe servita a orientare le decisioni e a stimare quanto tempo il Paese stesse effettivamente guadagnando nella gestione dell’epidemia.

Cattuto spiega che ottenere questi dati fu complesso, poiché l’uso di informazioni generate dai dispositivi mobili richiedeva collaborazioni strutturate tra soggetti pubblici e privati. La soluzione arrivò solo grazie alla trasformazione rapida di un progetto di ricerca già esistente in uno strumento utile alla gestione dell’emergenza. «L’Italia fu il primo Paese» a misurare la mobilità tramite dati aggregati provenienti da dispositivi mobili, afferma, ma il valore di questa esperienza rimase confinato allo sforzo emergenziale.

Perché i meccanismi non sono stati istituzionalizzati

Cattuto evidenzia che questa capacità di collaborazione non è stata tradotta in un modello stabile. Esistono regolazioni che definiscono «boundary di azione», ritenuti dallo stesso Cattuto necessari, ma manca l’equivalente “positivo” del sistema: un insieme di regole e processi che permetta di attivare rapidamente forme di collaborazione in grado di generare benefici collettivi. Per questo, osserva: «non siamo riusciti a generare la parte positiva del processo, cioè istituzionalizzare non tanto le piattaforme tecniche quanto la data collaboration che sappiamo generare beni pubblici».

La fiducia come infrastruttura: senza persone la data collaboration non esiste

La data collaboration non è un esercizio tecnico. È, prima di tutto, un processo sociale. Cattuto lo ribadisce: «la data collaboration è fatta di persone». Servono fiducia, trasparenza e una gestione dei dati che sia percepita come equa dai cittadini. La complessità dei temi non può essere ridotta a slogan, perché il rischio è polarizzare il dibattito sui soli aspetti economici, spesso percepiti come estrattivi.

Cattuto sottolinea come l’“economia dei dati” venga spesso interpretata in un’ottica incentrata sulla raccolta di valore da parte delle piattaforme, mentre esiste un «iceberg di valore non ancora emerso» basato su forme di collaborazione che possono generare beni comuni. Perché questo accada, la fiducia diventa un fattore abilitante tanto quanto le tecnologie.

L’opacità dell’AI e la necessità di una data literacy diffusa

La rapida adozione dell’intelligenza artificiale introduce un ulteriore elemento di complessità. «Credo che noi non abbiamo mai visto una tecnologia così opaca quanto l’AI», afferma Cattuto, sottolineando che la capacità del cittadino medio di comprenderne funzionamento, rischi e limiti è molto inferiore rispetto ad altre tecnologie. L’opacità non è solo tecnica, ma culturale.

Diventa quindi necessario poter discutere pubblicamente del funzionamento dell’AI, delle sue catene del valore, dei potenziali BIAS e dei rischi. Non è sufficiente che questi temi restino confinati alle sedi specialistiche o alle comunità tecniche. Per Cattuto, la discussione deve entrare anche nei luoghi della democrazia, perché è lì che si definiscono i confini sociali dell’utilizzo delle tecnologie.

L’alfabetizzazione ai dati, allora, assume il ruolo di infrastruttura abilitante. Cattuto cita l’impegno del settore non profit e della stessa ISI Foundation, che sta lanciando «una grossa operazione di data literacy sull’intelligenza artificiale e sui dati per i cittadini, per i giornalisti e per tutti». È un passaggio decisivo per rendere la data collaboration possibile su larga scala.

Mercato, impatto sociale e valore secondario dei dati

Oltre agli aspetti culturali e istituzionali, Cattuto richiama l’attenzione sui fattori economici che influenzano la collaborazione sui dati. Molto del valore dei dati nasce dal loro impiego secondario e dalla capacità di essere riutilizzati in contesti diversi da quelli per cui sono stati raccolti. È necessario, quindi, sviluppare modelli di mercato più maturi e trasparenti.

Cattuto racconta che alcune iniziative sperimentano format in cui le corporate investono in dati riutilizzabili con un obiettivo di impatto sociale. È un esempio di come la data collaboration possa assumere anche una dimensione economica, purché sostenuta da fiducia e da un quadro di governance chiaro.

Oltre la tecnologia: verso una data collaboration come bene comune

La riflessione complessiva proposta da Cattuto mostra come la maturità del Paese, nella gestione dei dati e nell’adozione dell’AI, si giochi su fattori che vanno oltre l’infrastruttura tecnologica. La data collaboration, se intesa come capacità di coordinare attori diversi attorno a obiettivi condivisi, richiede basi robuste nelle istituzioni, nel mercato e nella società civile. Fiducia, alfabetizzazione e modelli collaborativi stabili emergono come elementi cruciali affinché dati e AI possano generare valore pubblico e contribuire a decisioni più informate.

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