Il 14 ottobre 2025 segnerà la fine ufficiale del supporto di Windows 10, come annunciato da Microsoft su Microsoft Learn. Dopo quella data, il sistema operativo non riceverà più aggiornamenti di sicurezza, patch o assistenza tecnica.
Un’analisi condotta da TeamViewer su un campione anonimizzato di 250 milioni di connessioni, tra luglio e settembre 2025, ha rivelato che oltre il 40% degli endpoint (il 44% in Italia) utilizza ancora Windows 10. Un dato che mette in evidenza la portata del problema: due dispositivi su cinque smetteranno di ricevere aggiornamenti, restando così esposti a vulnerabilità potenzialmente critiche.
Indice degli argomenti
Cosa significa “fine del supporto”
Con il termine “fine del supporto” (EOS, End of Support), Microsoft indica la cessazione delle attività di manutenzione e aggiornamento relative al sistema operativo. In pratica, Windows 10 non riceverà più:
- Patch di sicurezza e fix per vulnerabilità note;
- Aggiornamenti funzionali o di compatibilità;
- Supporto tecnico diretto.
Come chiarito su Microsoft Learn, le versioni coinvolte includono tutte le edizioni Home, Pro ed Enterprise. Le uniche eccezioni riguardano le versioni LTSC (Long-Term Servicing Channel), che avranno un’estensione temporanea del supporto, e le Extended Security Updates (ESU), acquistabili a pagamento per un periodo limitato.
L’impatto non si limita al sistema operativo: la fine del supporto implica anche problemi di compatibilità con software, driver e applicazioni, oltre a influenzare il ciclo di vita di Microsoft 365 e Office (Supporto Microsoft).
Adozione, ritardi e rischi
Come accennato all’inizio, sono ancora molti i PC dotati di Windows 10. La lentezza nell’adozione di Windows 11 è particolarmente marcata nei contesti enterprise, dove la complessità infrastrutturale rende più oneroso ogni cambiamento.
Le ragioni dei ritardi
Le motivazioni sono numerose e spesso intrecciate tra loro.
La prima e più evidente ragione riguarda i vincoli hardware. Windows 11 introduce requisiti tecnici più stringenti, come la presenza del TPM 2.0, l’attivazione del Secure Boot e il supporto a CPU relativamente recenti. Queste condizioni escludono una quota significativa del parco macchine ancora in funzione: molti endpoint perfettamente operativi, soprattutto nei contesti industriali o nei reparti di backoffice, non sono compatibili senza un intervento di sostituzione o aggiornamento hardware. Per molte aziende, questo comporta un costo non banale e un’analisi costi-benefici che frena il processo decisionale.
Un secondo fattore è rappresentato dalla compatibilità applicativa. Negli anni, numerose organizzazioni hanno costruito ecosistemi software complessi, spesso caratterizzati da applicazioni legacy sviluppate su misura o da componenti integrati in processi critici. La migrazione non è quindi solo una questione di installare un nuovo sistema operativo, ma di garantire la piena interoperabilità di ogni strato applicativo. Molti CIO si trovano di fronte a veri e propri “sistemi oscuri” — software di cui si conosce l’esistenza ma non l’impatto esatto — che rendono rischioso ogni cambiamento senza un’analisi approfondita.
A ciò si aggiungono ragioni più organizzative e gestionali. La migrazione di centinaia o migliaia di endpoint richiede risorse dedicate, pianificazione accurata, comunicazione interna e formazione degli utenti. La percezione, ancora diffusa, che la fine del supporto non comporti un rischio immediato contribuisce a rimandare le decisioni, innescando un effetto di procrastinazione collettiva.
Infine, c’è un aspetto più sottile: la “transformation fatigue”. Dopo anni di cambiamenti forzati — pandemia, smart working, migrazioni cloud — molte organizzazioni mostrano una certa resistenza psicologica all’ennesima “transizione tecnologica”. In assenza di una spinta chiara dal vertice, i CIO faticano a far percepire la migrazione non come un costo, ma come un investimento necessario per la resilienza futura.

I rischi per il CIO e per l’organizzazione
Il rinvio della migrazione non è una scelta neutrale. Continuare a utilizzare Windows 10 oltre la fine del supporto significa accettare una progressiva erosione della sicurezza. Ogni nuova vulnerabilità scoperta dopo ottobre 2025 rimarrà irrisolta, trasformando milioni di endpoint in potenziali punti di ingresso per malware e attacchi mirati.
Ma i rischi non si fermano alla sicurezza tecnica. Sul piano regolatorio e reputazionale, utilizzare sistemi non supportati può entrare in conflitto con standard di certificazione (ISO 27001, NIS2). Un audit o una violazione di dati dovuta a un endpoint vulnerabile può avere conseguenze legali e d’immagine rilevanti.
In termini economici, l’adozione di soluzioni tampone — come gli Extended Security Updates (ESU) — può sembrare un compromesso conveniente, ma sul lungo periodo si rivela onerosa. Ogni anno di proroga a pagamento riduce i benefici dell’eventuale migrazione e sposta risorse che potrebbero essere investite in innovazione. Per questo motivo, la decisione di rimanere su Windows 10 dopo la scadenza del supporto dovrebbe essere considerata una misura di emergenza, non di strategia.
Cosa dicono gli analisti
Le principali società di ricerca concordano su un punto: la fine del supporto di Windows 10 rappresenta molto più di una scadenza tecnica. È un test di maturità digitale per i CIO e per l’intera organizzazione IT.
Secondo Forrester, mantenere in esercizio un sistema operativo non più supportato equivale ad aumentare drasticamente la propria esposizione agli attacchi informatici. Gli analisti sottolineano che la transizione verso Windows 11 deve essere considerata un passaggio di resilienza, in linea con i principi della cyber risk management e della continuità operativa. Non migrare significa indebolire i presidi di sicurezza, ma anche rallentare l’adozione di tecnologie integrate con intelligenza artificiale, automazione e gestione avanzata degli endpoint.
Forrester, in collaborazione con Microsoft, ha inoltre sviluppato un “End-of-Support Impact Calculator”, che consente ai CIO di stimare il costo effettivo del rinvio. I risultati sono eloquenti: tra licenze ESU, tempi di gestione aggiuntivi e perdita di produttività, il costo complessivo del “non migrare” può superare in pochi anni quello di una migrazione completa.
Gartner, da parte sua, invita i CIO a “non sottovalutare la portata organizzativa della transizione”, sottolineando che l’aggiornamento deve essere inserito in una più ampia strategia di modern workplace, capace di allineare infrastrutture, sicurezza e modelli di lavoro ibrido. In questa prospettiva, il passaggio a Windows 11 è visto come un’opportunità di standardizzazione e di razionalizzazione dei dispositivi, piuttosto che come un mero progetto tecnico. La migrazione può diventare la porta d’ingresso per l’adozione di AI PC e dispositivi “Copilot-ready”, capaci di eseguire in locale funzioni di intelligenza artificiale in modo sicuro ed efficiente.
Nel complesso, gli analisti convergono su una raccomandazione chiara: non limitarsi a “sopravvivere” alla fine del supporto, ma usarla come occasione per accelerare la trasformazione digitale.
Le possibili alternative per i CIO
Di fronte alla scadenza del 14 ottobre 2025, i CIO hanno diverse alternative, ciascuna con implicazioni economiche, operative e strategiche.
La più diretta è la migrazione completa a Windows 11, soluzione che garantisce continuità di supporto e l’accesso a nuove funzionalità di sicurezza basate su hardware, come la protezione integrata TPM 2.0 e il controllo dell’integrità del firmware. Questa opzione richiede un approccio metodico: inventario degli asset, verifica dei requisiti di compatibilità, aggiornamento dei driver, test applicativi e formazione degli utenti. Utili in questo senso sono strumenti di deployment automatizzati (Intune, Autopilot, SCCM).
Una seconda possibilità è rappresentata dagli Extended Security Updates (ESU). Microsoft offrirà, a partire dal 2025, la possibilità di acquistare aggiornamenti di sicurezza per Windows 10 per un periodo di tre anni. È una soluzione ponte, pensata per guadagnare tempo in attesa di completare la transizione. Tuttavia, i costi aumenteranno annualmente e non includono nuove funzionalità o supporto tecnico. Molti analisti ritengono che si tratti di una misura transitoria, utile solo in contesti con forte dipendenza da sistemi legacy o applicazioni non aggiornabili nel breve periodo.
Una terza opzione è l’approccio ibrido o graduale, che prevede la coesistenza temporanea di Windows 10 e Windows 11. Questa strategia consente ai CIO di distribuire la migrazione nel tempo, concentrando le prime fasi sui reparti meno critici e testando progressivamente la compatibilità delle applicazioni. È un modello flessibile e che richiede una governance rigorosa: doppio sistema di gestione, patching differenziato e politiche di sicurezza coerenti.
Esistono poi scelte più radicali, come il passaggio a Desktop Virtuali (VDI) o Windows 365 Cloud PC, che spostano l’elaborazione nel cloud, semplificando la gestione degli endpoint e migliorando la sicurezza. Alcune aziende stanno anche valutando alternative non-Windows, come distribuzioni Linux per ruoli specifici o terminali leggeri gestiti centralmente, soprattutto in ambienti industriali o nei contact center.