Servono organizzazione e soluzioni applicative

Da un’indagine dell’Università Bocconi su circa 500 Pmi italiane risulta che queste investono prevalentemente in infrastrutture a supporto dell’ automazione dei processi operativi e in modo molto moderato in software applicativo, trascurando spesso investimenti complementari di natura organizzativa che costituiscono il mezzo con il quale abilitare al meglio l’allineamento dell’ It all’operatività aziendale

Pubblicato il 05 Dic 2005

La Pmi italiana, almeno fino a oggi, non sembra aver colto appieno, e conseguentemente sfruttato, il potenziale intrinseco alle tecnologie informatiche: lo dicono i tanti dati che testimoniano come il Bel Paese si collochi ben al di sotto della media europea in termini d’investimenti in It e gli atteggiamenti prudenti (anche per problemi di ordine creditizio, finanziario e fiscale) nei confronti dell’innovazione tecnologica degli imprenditori alla guida delle piccole e medie imprese. Ad analizzare lo stato di salute Ict di circa 500 Pmi italiane (da 19 a oltre 250 addetti) attive in 18 settori di attività economica (dall’alimentare all’edilizia, dalla meccanica alla distribuzione/commercio) ci ha pensato l’Istituto di organizzazione e Sistemi Informativi (Iosi) dell’Università Bocconi, che nel corso del 2004 ha ripetuto (grazie al supporto fornitole da Sap) l’esperimento avviato l’anno precedente rifacendo il check-up dei sistemi informativi delle singole aziende e individuando i fattori e le condizioni che potrebbero facilitare gli impatti di nuovi progetti It sulla produttività delle imprese. Vincenzo Morabito, Assistant Professor in Iosi Bocconi, ha illustrato a ZeroUno i principali risultati dell’indagine.

L’anello debole sono le “applications”?
L’analisi statica e dinamica delle Pmi nei confronti del sistema informativo nel suo complesso ha prodotto vari indicatori e, primo fra questi, il livello di diffusione dell’It all’interno dell’azienda: “L’Italia – ha spiegato Morabito – sembra un Paese che attraverso le tecnologie informatiche produce ma non innova. Le Pmi, in particolare, investono prevalentemente in infrastrutture a supporto dell’automazione dei processi operativi e in modo molto moderato in software applicativi, trascurando spesso e volentieri voci di investimento complementari di natura organizzativa che costituiscono il mezzo con il quale abilitare al meglio l’allineamento dell’It all’operatività aziendale”. Emerge quindi che le Pmi italiane oggi non dispongono, e il discorso è trasversale a tutti i livelli dimensionali dell’azienda, di un portafoglio applicativo adeguatamente sviluppato in relazione alla dotazione di “sistema”, pur mostrando, come ha rimarcato Morabito, “di possedere i requisiti e le competenze per ritenerle pronte all’adozione di nuove soluzioni gestionali evolute e di software applicativo con elevato valore organizzativo e di business”.Ma come si riflette, in termini di impatti, la scarsa propensione ad utilizzare business application per razionalizzare e/o reingegnerizzare i processi di gestione? E come, soprattutto, le imprese italiane sono nella condizione di cogliere la sfida di migliorare la propria competitività sfruttando le tecnologie It? L’indagine sul territorio ha confermato la generalizzata maggiore attenzione verso gli aspetti infrastrutturali rispetto a quelli legati a soluzioni applicative evolute e integrate in un contesto di politiche di investimento in hardware, sistemi informativi e applicazioni che si caratterizzano in modo specifico per ogni singola impresa, a prescindere dall’area geografica del Paese in cui essa opera e dalle dimensioni dell’azienda stessa. Solo poche Pmi hanno di fatto attivato processi sostanziali di cambiamento organizzativo lasciando di conseguenza aperti grandi spazi di sviluppo ancora non pienamente sfruttati, sia sotto il profilo dell’adozione di applicazioni ad alta valenza strategica e di business sia per quanto riguarda la flessibilità e la capacità di integrazione di queste ultime all’interno del sistema informativo aziendale.
Il commento finale di Morabito a tali risultati d’insieme non poteva quindi che essere di cauto ottimismo e in ogni caso rapportato a quella sorta di “work in progress” sulla strada dell’innovazione abilitata dalla tecnologia che per molte medie e piccole imprese potrebbe essere l’unica via percorribile per raggiungere nel breve periodo obiettivi di maggiore produttività e migliori risultati sul mercato di competenza. Nelle imprese più propense all’innovazione “l’It è già vista come variabile organizzativa orientata ai processi e tesa a produrre valore competitivo ed è il modello a cui tendere; le imprese dovrebbero quindi investire in risorse umane qualificate rispetto a nuovi modelli di management e migliorare la disponibilità del portafoglio applicativo, sviluppare concretamente processi aziendali innovativi e confrontare in modo più organico i propri modelli con le aziende ‘best in class’ dei rispettivi mercati di competenza”.

Il modello evoluto? L’impresa agile
Se le priorità delle Pmi italiane sono internazionalizzazione, impresa estesa e rispetto delle nuove normative comunitarie in materia di gestione delle attività aziendali (Basilea II in testa) e la volontà dichiarata è quella di riacquistare competitività attraverso l’innovazione dei modelli di business, le strade da seguire non sono infinite. Anzi. Secondo Sap c’è n’è di fatto una sola, quella di diventare “impresa agile”, di fare propri quindi elementi chiave quali la conoscenza delle esigenze del mercato di competenza e gli strumenti per interagire al meglio con i clienti (anche potenziali) e lavorare con una rete di partner qualificati e attraverso processi operativi efficienti. Un modello che non identifica un’identità aziendale precisa (in fatto di dimensioni, struttura e settore di appartenenza) ma che presuppone basi organizzative e tecnologiche ben definite. Essere agili dal lato del vendor (questo dice la strategia Sap) significa attivare un confronto continuo con le Pmi per definire un’offerta di soluzioni che sia per l’appunto “agile” rispetto al sistema informativo esistente; l’azienda, da parte propria, deve compiere sforzi mirati per una gestione più accurata della catena delle relazioni, per una maggiore qualità dei processi organizzativi e per una precisa comprensione degli impatti derivanti dall’adozione dell’It. A supportare l’evoluzione dei sistemi informativi delle piccole e medie imprese devono quindi concorrere modelli di offerta che tengano necessariamente conto delle complessità di gestione, della velocità di cambiamento e delle capacità (o difficoltà) di interazione dell’azienda con i suoi partner. Un diverso approccio che in concreto si traduce in una piattaforma integrata di soluzioni, orientata alla gestione estesa delle attività aziendali e marcatamente segnata dall’integrazione fra prodotto (software) e servizio.

Più cultura “trasversale” per portare più Ict nelle Pmi
Investire in nuove tecnologie è la scelta obbligata per superare uno degli handicap che stanno minando la competitività delle imprese italiane sui mercati internazionali? I grandi vendor It hanno trovato la strada maestra per “educare” le piccole imprese a sfruttare appieno le potenzialità delle soluzioni offerte? Di questi temi ne ha parlato di recente Umberto Paolucci, Vice-President di Microsoft Corporation e senior chairman per l’area Emea del gigante di Redmond, partendo dal fatto che “l’It è arrivata a traguardi inimmaginabili fino a poco tempo fa in termini di capacità di abilitare procedure operative. Trasformare tale innovazione in valore è l’obiettivo a cui le imprese devono necessariamente tendere lavorando sulla produttività delle proprie organizzazioni, sulla velocità delle relazioni interne e con l’esterno, sull’analisi dei dati sensibili”. Premesso come anche i piccoli contesti aziendali devono saper e poter accedere a una risorsa strategica quale va ritenuta l’It, il Paolucci-pensiero è tutto in una serie di opportune osservazioni: “L’Italia ha creduto meno di altri paesi nelle potenzialità delle tecnologie informatiche, quindi le imprese devono essere più aperte culturalmente al cambiamento per invertire una tendenza che le vede nettamente penalizzate rispetto al resto del mondo”. Il riferimento esplicito è a due dati. Il primo: l’Ict, nella seconda metà degli anni ‘90, ha contribuito in Europa solo per il 40% all’aumento di produttività aziendale, contro il 60% degli Usa. Il secondo: le Pmi italiane investono in Ict circa la metà di quanto avviene nel resto dell’Unione. Dove intervenire, quindi, per cancellare questo gap? Secondo Paolucci le soluzioni sono diverse, complementari e: “Per favorire aggregazioni fisiche o virtuali di aziende sul territorio, le Confederazioni di categoria devono sviluppare soluzioni mirate, chiedendo ai vendor non più solo software e hardware ma conoscenza a valore aggiunto, le competenze gestionali e progettuali che servono vanno sviluppate a ogni livello, da quello accademico a quello istituzionale, mondi che dovrebbero dialogare in modo più intenso e proficuo con il tessuto imprenditoriale italiano”.


SPORTELLI ITALIA:IL SUPPORTO DELLA PA ALLE AZIENDE
Quale supporto può fornire la Pubblica Amministraizone all’internazionalizzazione delle imprese italiane, in particolare delle Pmi? Sicuramente la Pa può avere un ruolo di promozione e supporto per il recupero della competitività delle imprese. Una recente indagine effettuata da un gruppo di ricercatori del Consorzio Mipa (www.consorziomipa.it) consente di capire cosa finora è stato fatto e quali sono le possibili aree di intervento. La ricerca, svolta nel settembre 2004 e presentata di recente, chiarisce che il processo di internazionalizzazione riguarda non solamente il settore delle attività produttive, ma tutti gli ambiti di sviluppo di un sistema (scolastico, produttivo, istituzionale, ecc.), coinvolgendo molteplici soggetti (pubblici, privati, associazioni, ecc.) che possono essere coordinati dalle Regioni. L’indagine esamina le caratteristiche degli strumenti di sostegno, attualmente impiegati dalle Regioni a favore delle Pmi, allo scopo di far emergere un modello di riferimento utile ad affrontare le sfide economiche derivanti dalla globalizzazione dei mercati. Quattro i settori considerati (risorse dedicate, funzioni e attività, relazioni e coordinamento interistituzionale, prospettive di evoluzione) e vasto l’universo di riferimento (19 amministrazioni regionali e le due province autonome di Trento e Bolzano), che ha consentito di censire 42 rappresentanze estere di prima assistenza (Info Point, Desk, uffici Antenna), diversamente organizzate per svolgere un’ampia tipologia di attività. Alle unità sperimentali ora operative, come Casa Italia a Tirana (inaugurata nel novembre 2003) ed i 25 uffici Antenna aperti dalla Lombardia, presto seguiranno ancora altri 40 Sportelli Italia nel mondo, così da supportare ogni procedura amministrativa e ampliare l’offerta dei servizi alle imprese, con presidi concreti e strategici. Secondo gli autori della ricerca, per gestire un’interazione sistematica tra l’elevato numero delle parti operanti e superare alcune iniziali incoerenze che minaccerebbero l’unità di direzione o addirittura l’indispensabile partecipazione, potrebbe essere creata una nuova società, ad esempio “Commercio Estero Spa”. In tal modo, ogni Regione, impegnata a supportare l’internazionalizzazione delle Pmi, potrebbe identificarsi in un ipotetico sistema organizzativo a “rete”, in grado di eliminare duplicazioni e frammentazioni. Sarebbe dunque possibile stabilire importanti sinergie e potenziare uno scambio di conoscenze tra le singole strutture, agevolando sia la condivisione degli obiettivi e delle regole, sia l’identificazione dei partecipanti con rispettivi ruoli e funzioni. Carlo Lefebvre, direttore generale del Formez ha fornito una chiave di lettura delle iniziative attuate finora dalle Regioni: “Un’atmosfera istituzionale può influire favorevolmente su fusioni e partnership, attirando perfino investimenti economici tali da trasformare il sistema produttivo locale. È importante per la PA adottare strategie specifiche anche di marketing territoriale, per promuovere adeguatamente il proprio contesto sociale con azioni riguardanti la fornitura di servizi promozionali, come l’organizzazione di eventi espositivi e di procedure automatizzate per l’accesso agli strumenti agevolativi”. Risultati incoraggianti provengono da Emilia Romagna, Toscana e Lombardia. In Emilia Romagna, dove è operativo un modello di cooperazione e di scambio, è stata formalizzata la costituzione del primo Sprint (Sportello regionale per l’internazionalizzazione, www.sprint-er.it). La Lombardia, benché ultima ad attivare lo Sprint, risulta tuttavia fortemente orientata a garantire le condizioni per lo sviluppo imprenditoriale locale ed internazionale. Beniamino Quintieri, presidente dell’Istituto Nazionale per il Commercio Estero, ha tuttavia prudentemente rilevato come l’assenza di un modello nazionale di best practice potrebbe determinare il diffondersi di alcune distorsioni negative. L’Ice, in particolare, alla visione frammentata del Sistema ha opposto una serie di interventi diretti a stabilire nuove e produttive coesioni, come quelle derivanti dagli accordi di programma stipulati con tutte le Regioni. E, orientato nella stessa direzione è ad esempio il network formato dall’aggregazione di Toscana ed Emilia Romagna, costituito per sviluppare nuove azioni e risolvere “problemi comuni”. (Paola Parmendola)

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