Nel mondo dell’impresa contemporanea, la trasformazione digitale corre più veloce della capacità delle persone di adattarsi. Per questo la leadership empatica diventa oggi un fattore competitivo, non solo umano. Lo ha spiegato Riccardo Pittis, ex cestista, 118 presenze nella Nazionale di basket e oggi coach e formatore certificato ICF, nel suo intervento ai Digital360 Awards e CIOsumm.IT, unendo le regole dello sport a quelle delle organizzazioni che innovano.
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Dal parquet all’impresa: l’importanza del fattore umano nell’era digitale
Dopo vent’anni da professionista tra Olimpia Milano e Benetton Treviso, Pittis ha trasformato la propria esperienza sportiva in un metodo di crescita per aziende e manager. Il suo obiettivo, ha spiegato, è «avvicinare due mondi che sembrano lontani ma che in realtà sono legati da un elemento comune: il fattore umano».
Una lezione quanto mai attuale in un contesto in cui l’automazione e l’intelligenza artificiale ridefiniscono ruoli e competenze. «Quando due o più persone interagiscono in un contesto lavorativo – osserva Pittis – si attivano dinamiche identiche a quelle che si creano in uno spogliatoio». La tecnologia accelera i processi, ma sono le persone a decidere se e quanto una squadra funziona davvero.
Essenzialità e valore del collettivo
Al centro della riflessione di Pittis c’è l’idea di essenzialità (filo conduttore dell’edizione 2025 dei Degigital360 Awards e CIOsumm.IT), che nel linguaggio d’impresa si traduce nella capacità di concentrare energie e risorse su ciò che genera valore reale. «Un campione non pensa a far bella figura, ma a far vincere la squadra», ha detto ricordando Dino Meneghin, simbolo del basket italiano.
Essere essenziali significa ridurre il superfluo per migliorare la performance complessiva. «La spettacolarità ti fa vendere i biglietti, l’essenzialità ti fa vincere i campionati». In un ecosistema dove i progetti digitali richiedono velocità e precisione, il “giocatore essenziale” è colui che mette il proprio talento al servizio del risultato collettivo.
Dalle risorse umane alle “umane risorse”
Con la consueta ironia, Pittis invita a un cambio di prospettiva radicale: «Le aziende dovrebbero trasformare l’ufficio delle risorse umane in Ufficio delle umane risorse». Il principio è semplice ma profondo: le persone non sono strumenti, sono la leva del cambiamento.
L’aneddoto del “miglior decimo uomo al mondo”, attribuito dal coach Dan Peterson a un giocatore che non entrava quasi mai in campo, diventa una metafora straordinaria per il management: in un team vincente nessuno è marginale. «All’interno di una squadra, sportiva o aziendale, non esistono ruoli secondari. Tutti sono essenziali per il successo collettivo».
In un’impresa che affronta la complessità dell’innovazione, valorizzare ogni competenza – anche quella meno visibile – diventa l’unico modo per costruire cultura organizzativa e senso di appartenenza.
Leadership empatica: fiducia, ascolto e autonomia
La leadership empatica è, per Pittis, la capacità di far crescere gli altri. È un modello che sostituisce il controllo con la fiducia e la delega con la responsabilizzazione. «Un grande allenatore è colui che sa fare grandi cose con ciò che ha», spiega, ricordando il conetto di essenziale.
Nel linguaggio aziendale, significa costruire contesti in cui le persone si sentano viste, ascoltate e libere di esprimersi. È una forma di guida che genera engagement e riduce la distanza gerarchica, favorendo l’innovazione dal basso. La fiducia, infatti, non è un valore astratto, ma un fattore operativo: accelera le decisioni, facilita la collaborazione e moltiplica l’efficacia delle tecnologie abilitanti.
Il coraggio di riscrivere le proprie abitudini
Il cambiamento, ha ricordato Pittis, è la costante che più spaventa le persone ma che definisce la loro evoluzione. Quando a trent’anni un problema fisico lo costrinse a tirare con la mano sinistra, dovette imparare da zero un gesto tecnico che aveva automatizzato per decenni. «Avevo due scelte: smettere o cambiare. Dopo qualche mese segnai un canestro da tre punti con la mano sinistra».
La storia diventa una metafora della trasformazione organizzativa aziendale: non si può innovare restando uguali a se stessi. «Il vero errore – ha ammesso – è stato non provarci prima». Una lezione che vale per chi guida la transizione digitale: il rischio non è sbagliare, ma non sperimentare.
Responsabilità e cultura dell’azione
Tra le riflessioni più incisive di Pittis c’è quella sulla differenza tra “respons-abili” e “respons-alibi”. «I primi danno risposte, i secondi danno scuse», dice, riferendosi alla tendenza umana a cercare giustificazioni quando le cose non funzionano.
Nel mondo del lavoro, questo atteggiamento si traduce nella ricerca di colpe esterne: la tecnologia, il mercato, la mancanza di risorse. Ma per il coach la vera svolta è tornare a “tenere in mano il volante”, cioè riappropriarsi della possibilità di influire sugli eventi. È la base di ogni cultura dell’innovazione: un’organizzazione cresce quando chi ne fa parte si sente parte attiva del cambiamento.
Il diamante interiore e il nuovo significato di successo
La metafora del diamante è il filo conduttore di tutto l’intervento. «Tutti noi abbiamo un diamante dentro, ma spesso la vita lo ricopre di terra. Il nostro compito è farlo tornare a brillare». È un invito a riscoprire il valore individuale come base del valore collettivo.
Per Pittis, il vero successo non è la visibilità ma «il far succedere le cose». «Successo – spiega – è il participio passato di succedere». È la capacità di concretizzare le idee, di trasformare la visione in risultato, proprio come fanno ogni giorno i team che portano innovazione nelle imprese.
Una lezione non motivazionale ma sistemica, quella che emerge dal racconto di Riccardo Pittis: la leadership empatica è la nuova infrastruttura della trasformazione organizzativa.
In un’economia dove la tecnologia evolve a ritmo esponenziale, la differenza la fanno le persone capaci di generare fiducia, di condividere obiettivi e di far brillare — come diamanti — il talento collettivo.











