Direttiva UE: favorevoli e contrari…e pure astenuti

In seno all’Ue, sono pochi i Paesi che hanno avuto il coraggio di contrastare ufficialmente la direttiva e fra questi si sono distinti Polonia, Portogallo e Danimarca. Astensione di Italia e Spagna. Tra i paesi decisamente a favore spicca la posizione dell’Irlanda. Cerchiamo di capire i motivi di queste posizioni

Pubblicato il 02 Lug 2005

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La discussione sulla brevettabilità del software ha assunto nel corso degli ultimi mesi toni sempre più contrastati, con le opposte fazioni impegnate a sostenere posizioni in netta antitesi, chi (i sostenitori della direttiva) sicuri di nuovo vigore per il mercato It europeo e chi (i contrari) timorosi di una regressione all’insegna di un oligopolio del mercato gestito da poche multinazionali. Salvo improbabili colpi di scena, la soluzione che sembra più probabile vedrà l’Europarlamento doversi suo malgrado adeguare alla volontà della Commissione in quanto la maggioranza qualificata da raggiungere per valicare gli emendamenti da apporre alla direttiva è a quota 347 voti, per molti un’enormità visto l’intero iter della direttiva all’interno del Consiglio dei Ministri comunitario. Le iniziative volte a sensibilizzare i parlamentari Ue contro l’approvazione della norma si sono in questi mesi ripetute; l’ultima, in ordine di tempo, la manifestazione on line dell’associazione new global Attac (www.attac.org) contro i “costi delle licenze per i brevetti esistenti e il rischio delle violazioni di brevetto che renderebbero lo sviluppo del software rischioso e poco attraente”, e ha visto schierate in prima fila organizzazioni note e meno note come Free Software Foundation Europe (www.fsfe.org) e Foundation for a Free Information Infrastructure (Ffii, 500 membri, 1.200 aziende e 75.000 sostenitori), che ospita sul proprio sito (http://webshop.ffii.org/) una lista di possibili brevetti a cui la normativa darebbe di fatto esecuzione.
Quanto alle politiche adottate dai singoli paesi, per l’Italia si prospetta la conferma dell’astensione come a suo tempo raccomandato dal ministro Stanca. L’azione al Senato del senatore verde Fiorello Cortiana, che ha proposto di votare un documento bipartisan volto a sostenere le modifiche proposte dal Parlamento Europeo, sembra comunque aver avuto effetto se è vero che al Ministero dell’Innovazione si sta lavorando (al momento in cui scriviamo) a un documento tecnico di analisi del testo della direttiva teso a evidenziare come la brevettabilità del software sia poco congrua per programmi basati su algoritmi, a meno che si allarghi il fronte ai processi che da questi derivano. In seno all’Ue, sono in ogni caso pochi i Paesi che hanno avuto il coraggio di contrastare ufficialmente la direttiva e fra questi si sono distinti Polonia, Portogallo e Danimarca (dove per altro – attenzione – hanno sede due centri di sviluppo di Microsoft) mentre la Spagna ha mantenuto una posizione di astensione. Fra i Paesi “pro brevettabilità” spicca l’Irlanda, che ospita numerose sedi distaccate di varie multinazionali americane al pari dell’India, che ha invece rigettato le modifiche alla propria legge sul copyright bloccando sul nascere possibili ipotesi di nuove normative sul software (vedi riquadro).

In gioco il futuro dell’innovazione It “made in Europe”
Resta da capire come si comporteranno l’Ufficio Europeo dei Brevetti e soprattutto le grandi multinazionali (americane, ma non solo: Sap, azienda tedesca, si è ufficialmente pronunciata a favore della direttiva) detentrici di brevetti in serie e forti di risorse legali tali da far presupporre, al partito degli oppositori, azioni di mirato disturbo nei confronti delle aziende concorrenti. Se i fautori della brevettabilità ribadiscono in coro come dall’entrata in vigore di una forma di tutela estesa del software deriveranno indubbi vantaggi per le imprese europee, vedi per esempio la riduzione ai minimi termini del rischio di prodotti “clone” dalla Cina, c’è chi, come l’Ueapme, l’associazione europea delle Pmi (10mila le aziende iscritte), si oppone fieramente alla sua approvazione nella speranza di arrivare a un compromesso accettabile che potrebbe segnare i destini del mercato Ict europeo dei prossimi anni.
A Stefano Maffulli, presidente della sezione italiana di Free Software Foundation Europe, ZeroUno ha chiesto di affrontare il problema rispetto alle posizioni espresse da associazioni di categoria, imprese e vendor di settore. “Sul tema – ha rilevato in primis Maffulli – c’è stata troppa disinformazione e scarsa attenzione a tutti i livelli, in seno ai governi e nelle Pmi dei paesi membri. Le imprese italiane non sono a conoscenza del problema e tanto meno dei suoi possibili effetti, nonostante le assicurazioni in senso contrario profuse ufficialmente da Confindustria. Si tratta di una materia estremamente complessa, che nasconde politiche e relazioni strategiche di grande portata e che presuppone in sostanza l’applicabilità di una direttiva che definisce in modo impreciso la funzione attribuita al software”. L’analisi di Maffulli ha quindi toccato da vicino la figura dei vendor e fissato uno spartiacque ben preciso fra grandi realtà a favore e piccole realtà contro. “In Italia – ha precisato Maffulli – registriamo la presa di posizione di aziende realmente innovative come Zucchetti ed Engineering ma osserviamo anche come Telecom Italia caldeggi la brevettabilità del software rispetto a una strategia commerciale tendente a ostacolare la crescita di potenziali concorrenti attraverso la concessione di licenze protette ad aziende satellite”. Allargando il fronte allo scenario internazionale, il crescente interesse verso l’open source sbandierato dai big del software non convince la Free Software Foundation. “Si tratta – ha spiegato Maffulli – di un fenomeno feudale, nel senso che l’interesse verso i kernel di Linux in particolare è il pretesto per avere a disposizione risorse alternative per costruire nuove applicazioni proprietarie. Hp, Sun, Ibm, Nokia e via dicendo non sono reali sostenitori del software libero ma lavorano semmai a stretto contatto in un’ottica di alleanze e di accordi di cross-licensing per soddisfare precise richieste del mercato ed evitare di fatto la possibile entrata in gioco di nuovi attori desiderosi di portare regole nuove sul mercato del software”. L’apertura dei codici sorgente di sistemi operativi e applicazioni e la professione di fede verso l’open source, stando alla visione di cui sopra, è solo la facciata di un fenomeno che nasconde ben altri obiettivi: “Alcuni brevetti sono stati resi disponibili agli sviluppatori ma tramite concessioni mirate e per uno specifico utilizzo ed è certo che database, framework e applicativi server continueranno a essere debitamente protetti e chiusi all’esterno”. Quanto all’esito della vicenda antitrust di Microsoft, la sensazione di Maffulli è quella di “un accordo preciso fra le parti secondo cui la società di Redmond si impegna a garantire l’accesso ai propri protocolli nel segno di una maturata consapevolezza verso l’interoperabilità del software e la Commissione ne riconosce lo sforzo approvando la norma sulla brevettabilità, che significherebbe per Microsoft un controllo del mercato ancora superiore a quello detenuto attualmente”.

Stefano Maffulli
presidente della sezione italiana di Free Software Foundation Europe

Nella Ue c’è chi tira le orecchie ai vendor americani
Gli stati membri dell’Unione Europea potrebbero anche decidere di restringere lo spettro di innovazioni che possono essere brevettate e tale possibilità, decisamente meno penalizzante rispetto a quanto temuto dalle piccole software house, avrebbe preso corpo per il disagio registrato verso le troppo ampie interpretazioni delle soluzioni che dovrebbero essere interessate dalla direttiva CII. Michel Rocard, ex- primo ministro francese e membro socialista del Parlamento europeo, si è espresso nelle scorse settimane in modo molto esplicito in materia e ha caldeggiato un approccio più restrittivo della norma, tale da comprendere solo le applicazioni “hardware”, come per esempio un sistema di freni Abs o un macchinario per somministrare insulina.
Una seconda figura di spicco della Commissione Europea, Jesus Villasante, responsabile delle tecnologie software all’Information Society and Media Directorate General della Ue, ha sottolineato invece il ruolo “ingerente” delle multinazionali It americane rispetto agli sviluppi in seno alla communità open source. Ibm, Hp e Sun, nelle osservazioni di Villasante, utilizzerebbero gli sviluppatori quali subcontractor per meglio servire i propri clienti trascurando del tutto il supporto a nuovi progetti di sviluppo applicativo indipendenti da piattaforme proprietarie; se il monito per la comunità del software libero si manifesta in un accorato invito a incidere con maggiore maturità sull’evoluzione della società dell’informazione, l’analisi più critica dell’esponente della Commissione riguarda lo stato di salute dell’industria europea del software. A detta di Villasante, il software oggi è una prerogativa delle aziende a stelle e strisce e domani lo sarà probabilmente di compagnie cinesi o indiane: occorre quindi decidere quale ruolo dovrà giocare l’Europa in questo mercato e capire le reali potenzialità che il movimento open source, vitale per lo sviluppo del software made in Europe, potrà esprimere in futuro una volta superata l’attuale fase di confusione e la frammentazione che lo contraddistingue e caduti gli ostacoli posti in essere dalle lobby che premono per estendere la proprietà intellettuale del software che fa capo alle grandi multinazionali. Guardiamo ora all’articolo successivo per capire alcune prese di posizione ufficiali da parte dei vendor IT.


Prospettive “Free Oriented”

Facciamo di seguito un rapido flash di informazioni che dovrebbero aiutare i lettori a collocare il tema dei brevetti software nella giusta prospettiva mondiale.
Il governo indiano ha cancellato la legge che precedentemente prevedeva la possibilità di brevetto sul software. In Cina, pur essendo in atto un processo di evoluzione della legislazione sulla difesa delle proprietà intellettuale in concomitanza con l’apetura dell’economia, tuttora non sono previsti brevetti sul software, come per molti altri settori. Molti governi del Sud America, Brasile e Venezuela in testa, che non prevedono i brevetti, hanno emanato direttive che impegnano le pubbliche amministrazioni a utilizzare free/open software. In Venezuela la maggiore compagnia petrolifera non solo sta convertendo il proprio software in logica open source, ma finanzia lo sviluppo di progetti free software. Il Brasile, oltre a favorire il free software nella pubblica amministrazione sta esplorando modelli che tutelino la proprietà intellettuale tenedo conto dello spitito delle Rete. È il caso della piccola tassa sulla broadband da ridistribuire agli autori, per consentire di scaricare la musica in modo “legale”, istituita da Gilberto Gil, ministro della cultura brasiliano, oltre che noto musicista.
In estremo Oriente sta crescendo significativamente il fenomeno Asianux, un sistema operativo Linux frutto di una collaborazione fra il leader Linux cinese Red Flag Software, la giapponese Miracle Linux Corporation e la coreana Haansoft e che punta a diventare uno dei principali punti di riferimento delle aziende asiatiche e può avere grande probabilità di adozione da parte della pubblica amministrazione. In Cina si stima una crescita generale del mercato open del 46% l’anno per i prossimi 5 anni.
In India si è recentemente svolto nello stato del Kerala, un meeting internazionale dedicato all free software – “Free software, free society”, organizzato dai governi e da organizzazioni delle società civili di Brasile, Italia, Venezuela e India. Il Kerala, dove il tasso di analfabetismo è bassissimo e la mortalità confrontabile a quella dei paesi del Nord del mondo, ha realizzato un parco tecnologico che ospita 75 aziende It con 7.500 persone occupate.
Grandi banche come la banca centrale dell’India, di proprietà statale, e la Commercial Bank of China (ICBC) usano Linux come sistema operativo.
Se questo è il quadro, un’ottica puramente difensiva rischia probabilmente di essere controproducente in una situazione in cui, fuori dagli Stati uniti e dall’Europa, le grandi economie emergenti sembrano per il momento piuttosto diffidenti sul tema dei brevetti. Non sarebbe forse più utile esplorare nuovi strumenti di tutela della proprietà intellettuale compatibili al tempo stesso con le necessità di diffusione e di adozione dell’It da parte delle economie emergenti, per aiutarle a sviluppare le loro enormi potenzialità di crescita?

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