L’intelligenza artificiale sta trasformando il modo in cui le aziende costruiscono la relazione con i propri clienti. Non si tratta soltanto di innovare la tecnologia o di introdurre chatbot più efficienti, ma di ripensare l’esperienza del brand come un dialogo continuo, coerente e umano. È questa la prospettiva emersa dal confronto tra Gianluigi Alberici (Arsenalia), Andrei Carli (Dune) e Roberto De Martin (Hyundai) durante il panel L’essenza dell’esperienza: AI e omnicanalità al servizio della customer experience, ospitato dai Digital360 Awards e CIOsumm.IT.
Indice degli argomenti
L’essenza dell’esperienza: oltre il prodotto, la relazione
Per Gianluigi Alberici, partner di Arsenalia, la vera trasformazione non riguarda tanto la tecnologia quanto l’aspettativa delle persone: «I clienti vogliono conversare con il brand, non ricevere soltanto notifiche push sul prodotto». Le aziende, soprattutto quelle che operano in settori a contatto diretto con il pubblico, devono imparare a dialogare su temi che dominano e non soltanto sui propri prodotti.
Alberici racconta un progetto sviluppato per un marchio del settore benessere: un’app conversazionale in grado di accompagnare quotidianamente l’utente nelle sue scelte, suggerendo comportamenti coerenti con il programma personalizzato. L’obiettivo non è vendere un prodotto, ma costruire un rapporto di fiducia che duri nel tempo, grazie a un linguaggio che si adatta alle abitudini e al contesto del consumatore.

«I clienti vogliono conversare con il brand, non ricevere soltanto notifiche push sul prodotto»
Gianluigi Alberici, partner di Arsenalia
Secondo Alberici, questa è la vera “essenza dell’esperienza”: non la sofisticazione tecnologica fine a se stessa, ma la capacità del brand di trasformare l’interazione in relazione, usando l’AI come strumento per rendere il dialogo naturale e rilevante.
Omnicanalità e coerenza: la sfida dell’orchestrazione intelligente
Se la relazione è il cuore della nuova customer experience, la coerenza tra i canali ne rappresenta l’apparato circolatorio. Lo spiega Andrej Carli, partner di Dune, sottolineando che l’AI può supportare ma non sostituire la visione strategica: «La customer experience non deve essere vista come un prodotto tecnologico, ma come un processo di business».
Carli identifica tre elementi chiave per una customer experience efficace: ascolto costante del cliente, coerenza tra i canali e adattabilità dei processi aziendali alle evoluzioni della domanda. L’ascolto non deve limitarsi ai sondaggi, ma estendersi a ogni interazione, fisica o digitale, per intercettare anche i comportamenti impliciti. La coerenza è invece il principio guida dell’omnicanalità: WhatsApp, email, chat o voce devono veicolare lo stesso messaggio, pur con linguaggi differenti.
Questo approccio richiede un’infrastruttura tecnologica in grado di orchestrare i touchpoint e una cultura aziendale capace di sostenere la complessità. Carli spiega che nelle aziende di successo la tecnologia diventa mezzo e non fine, uno strumento per supportare il business e migliorare la relazione con il cliente.

«La customer experience non deve essere vista come un prodotto tecnologico, ma come un processo di business»
Andrej Carli, partner di Dune
AI come abilitatore e rischio: la questione della coerenza algoritmica
L’intervento di Roberto De Martin, Head of IT Department e CISO di Hyundai, introduce un elemento di cautela. Se da un lato l’AI nella customer experience consente livelli di personalizzazione impensabili fino a pochi anni fa, dall’altro può diventare «un’arma a doppio taglio» se non gestita con cura.
De Martin richiama l’attenzione sul rischio di distorsioni algoritmiche e incoerenze comunicative tra i diversi canali. Una risposta generata in tempo reale da un modello linguistico può variare in tono o contenuto, creando percezioni divergenti. La domanda chiave, osserva, è come garantire coerenza in un sistema in cui le decisioni vengono prese da modelli probabilistici e non deterministici.

«La domanda chiave è come garantire coerenza in un sistema in cui le decisioni vengono prese da modelli probabilistici e non deterministici»
Roberto De Martin, Head of IT Department e CISO di Hyundai
Alberici risponde riconoscendo che «la coerenza strutturale negli LLM non esiste». Ogni risposta è influenzata da variabili come carichi di elaborazione e sequenze di input. Per mantenere un livello accettabile di consistenza, le aziende devono curare la qualità dei dati e l’architettura informativa. Non basta possedere grandi quantità di dati: serve un lavoro continuo di integrazione e interpretazione umana, poiché «molte conoscenze risiedono nel non detto delle comunità aziendali».
La cultura aziendale come fattore di continuità
Carli amplia il discorso spostando l’attenzione sul valore culturale della customer experience. Secondo lui, l’AI non è ancora in grado di trasmettere la cultura di un’impresa: «La capacità di comunicare i valori aziendali e il tono di voce resta un’esclusiva umana».
Per questo è fondamentale investire in knowledge management, creando repository e sistemi di conoscenza strutturati che alimentino i modelli di AI senza perdere la coerenza identitaria.
La cultura diventa quindi un ponte tra tecnologia e relazione: le macchine possono supportare, riassumere e velocizzare, ma la direzione strategica rimane umana. È l’azienda a dover decidere quali valori e significati trasferire, evitando che la tecnologia trasformi il dialogo con il cliente in una serie di risposte standardizzate.
La sfida del change management e la fine del determinismo
Una delle riflessioni più profonde del dibattito riguarda il modo in cui le organizzazioni affrontano i progetti di AI. Alberici evidenzia un errore ricorrente: trattare i sistemi di intelligenza artificiale come progetti deterministici, dove ogni input produce un output prevedibile.
«L’informatica classica è deterministica, ma l’AI è probabilistica» spiega. Questa differenza cambia completamente la gestione dei test e del rilascio: non è possibile garantire la ripetibilità perfetta delle risposte, ma è necessario stabilire soglie di accettabilità e criteri di fiducia nel sistema.
Questo passaggio richiede un cambiamento culturale profondo. I team aziendali devono imparare ad accettare risultati non perfettamente uniformi, riconoscendo che anche nelle interazioni umane esistono “sfumature” e variabilità. La paura del controllo parziale spesso blocca i progetti più innovativi, alimentando resistenze interne.
Carli aggiunge che la resistenza al cambiamento non è solo tecnologica ma anche psicologica: le persone faticano ad adattarsi a modelli che modificano i propri processi di lavoro. Da qui l’importanza di una governance centralizzata che eviti la frammentazione dei flussi e aiuti a gestire il passaggio dall’automazione all’orchestrazione intelligente.
AI nella customer experience: un percorso di maturità
Nell’ultima parte del confronto, gli interventi convergono su un punto condiviso: la customer experience alimentata dall’AI è un percorso di evoluzione continua. Non basta implementare nuove piattaforme o chatbot per migliorare il rapporto con i clienti. Serve una visione strategica che includa il change management, la qualità dei dati e l’allineamento tra tecnologia e cultura aziendale.
Carli ricorda che il rischio maggiore è «non adottare una tecnologia realmente in grado di soddisfare le esigenze del cliente», mentre Alberici invita a evitare i cicli emotivi tipici delle grandi innovazioni: entusiasmo, disillusione, panico e ricerca del colpevole. L’obiettivo è mantenere una visione equilibrata, consapevoli che la maturità digitale non coincide con la quantità di AI utilizzata, ma con la capacità di governarla.
Verso un nuovo equilibrio tra uomo, dati e tecnologia
L’AI nella customer experience non è dunque un traguardo tecnico, ma una trasformazione culturale che ridefinisce il rapporto tra persone e organizzazioni. La vera sfida è armonizzare efficienza e autenticità, integrare algoritmi e sensibilità umana, mantenendo viva la coerenza dell’esperienza anche quando a parlarci è una macchina.
Come emerge dal confronto, la tecnologia evolve con una velocità senza precedenti, ma il suo valore dipende ancora dalla capacità delle aziende di trasformarla in relazione, restando fedeli alla propria identità.

















