Se parlare di potere nelle organizzazioni, come abbiamo fatto nel contributo precedente, mette spesso a disagio, parlare di leadership sembra invece aprire un terreno rassicurante. È una parola che viaggia con agilità nei discorsi manageriali, nelle presentazioni aziendali, come anche nella comunicazione esterna delle imprese.
La leadership porta con sé una luce positiva: evoca visione, capacità di ispirare, coerenza, capacità di dare senso e di creare comunità. È difficile trovare qualcuno che non ambisca a essere riconosciuto come leader, o che non descriva la leadership come l’elemento chiave del successo organizzativo.
Eppure, proprio questa fortuna rischia di trasformarsi in un problema. Più una parola circola, più tende a caricarsi di significati diversi, di sfumature vaghe, di narrazioni retoriche che ne diluiscono il senso analitico. Si finisce così per parlare di leadership in modo idealizzato, quasi mitologico, senza fermarsi a definire con rigore che cosa sia davvero e come funzioni concretamente nei contesti organizzativi.
Per provare a uscire da questa nebulosa, conviene riportare la leadership all’interno della cornice che abbiamo discusso nell’articolo precedente, quella del potere. Solo così possiamo comprenderla non come un concetto astratto e desiderabile, ma come una dinamica precisa, osservabile e governabile.
Indice degli argomenti
La leadership come forma di potere
La prima consapevolezza necessaria è che la leadership non è l’alternativa al potere, né la sua versione edulcorata o “gentile”. Al contrario, la leadership è una delle forme che il potere può assumere.
Se, per come lo abbiamo definito, il potere è la capacità di A di determinare la condotta di B, questa capacità può derivare da risorse diverse: dalla forza (quando A può sottrarre a B qualcosa a cui egli dà valore), dalle risorse economiche (quando A può remunerare B attraverso mezzi materiali), oppure dalle risorse simboliche. Ecco: la leadership è potere che si fonda proprio su queste risorse simboliche — prestigio, reputazione, competenza riconosciuta, appartenenza, credibilità…
La leadership, dunque, non è una dimensione che si contrappone al potere. Piuttosto, è uno dei modi in cui quest’ultimo si manifesta. Invece di funzionare attraverso la coercizione o attraverso la remunerazione, essa opera attraverso il riconoscimento volontario: le persone seguono un leader perché scelgono di farlo, non perché costrette, né perché pagate a sufficienza per farlo, ma perché lo percepiscono come legittimo, competente, affidabile. Perché quindi, è in grado di generare consenso.
Il consenso come moneta della leadership
La leadership, dunque, si regge sul consenso.
Il consenso non è un atto passivo, ma il riconoscimento attivo di chi decide di seguire. È l’adesione a ciò che il leader propone o rappresenta. Non può essere imposto né comprato: nasce dalla fiducia, dalla coerenza, dalla capacità del leader di incarnare valori, di mantenere promesse, di dare senso a ciò che si fa.
È anche una forma di potere particolarmente esigente. Per mantenere consenso, non basta esercitare una volta la competenza o dare una volta una direzione convincente. Il consenso si costruisce nel tempo, si alimenta di credibilità quotidiana, e può essere eroso da incoerenze, contraddizioni, promesse disattese. La leadership è dunque potente ma vulnerabile: basta poco per incrinarla, ma quando è solida permette di orientare comportamenti collettivi senza bisogno di coercizione né di incentivi materiali.
Leadership e complessità organizzativa
Nelle organizzazioni contemporanee, e in particolare nei grandi progetti di trasformazione (per esempio, digitale), il potere basato esclusivamente sulla forza o sulle risorse materiali spesso non è sufficiente. Certo, esistono regole da rispettare e budget da distribuire, ma un CIO o un project manager sa bene che non basta bloccare un’attività o promettere incentivi economici per ottenere adesione reale.
Per convincere stakeholder diversi, per tenere insieme team che hanno interessi divergenti, per spingere persone e gruppi ad andare oltre la routine quotidiana, serve qualcos’altro: serve la capacità di costruire consenso attorno a obiettivi comuni, di dare senso a un cambiamento che altrimenti rischierebbe di essere percepito come un’imposizione.
In questo senso, la leadership non è un talento innato di pochi eletti, ma una dinamica relazionale che nasce dal riconoscimento. Non è una scintilla misteriosa, ma un processo di legittimazione che prende forma quando chi guida dimostra di saper leggere i bisogni, interpretare il contesto, costruire visioni che gli altri trovano sensate e desiderabili.
I rischi della retorica della leadership
Se riportiamo la leadership dentro la cornice del potere, diventano più evidenti anche i rischi della retorica che spesso la circonda.
Dire che la leadership è “l’alternativa al potere” significa ignorare che essa stessa è una forma di potere. Questa illusione può portare i manager a pensare che esercitare leadership significhi rinunciare al potere, quando in realtà stanno semplicemente esercitando un’altra sua manifestazione.
Allo stesso modo, immaginare la leadership come puro carisma individuale, come dote quasi magica che appartiene a pochi, rischia di rafforzare il mito del leader-eroe e di oscurare le dinamiche relazionali e le risorse simboliche che la rendono possibile. Invece di guardare al leader come figura salvifica, conviene guardare alle condizioni relazionali che generano consenso e alle pratiche quotidiane che lo alimentano.
Un altro rischio frequente è quello di considerare la leadership sufficiente da sola a guidare le organizzazioni. In realtà, nessun progetto complesso si regge esclusivamente sul potere simbolico. Per quanto forte, la leadership ha bisogno di essere integrata con altre forme di potere: la forza, per stabilire confini chiari e regole inderogabili; le risorse economiche, per garantire meccanismi di remunerazione; e, accanto a queste, la leadership, per creare consenso attorno alla direzione intrapresa.
Un CIO che si affidi unicamente alla leadership rischia di restare prigioniero del bisogno continuo di convincere e motivare, senza mai avere a disposizione leve decisive per bloccare comportamenti indesiderati o per allocare risorse in modo efficiente. Al contrario, un CIO che si affidi solo alla forza o al denaro rischia di ottenere obbedienza passiva e di minare il consenso, perdendo sul lungo periodo la capacità di guidare in modo sostenibile.
La vera sfida consiste nel bilanciare queste risorse, sapendo che la leadership ha un ruolo privilegiato: è quella che permette di costruire adesione duratura, quella che dà senso e coerenza, quella che trasforma un insieme di individui in un gruppo che agisce con motivazione condivisa.
Le conseguenze per i CIO
La leadership è, in definitiva, una forma di potere. Non un potere che si esercita con la forza, né un potere che si scambia con incentivi materiali, ma un potere che si fonda sul consenso, sulla fiducia, sulla legittimazione simbolica. È una risorsa fragile ma straordinariamente efficace, che permette di orientare i comportamenti collettivi in contesti complessi.
Per un CIO o per un project manager, questo significa due cose. La prima è che non bisogna cadere nell’illusione che la leadership sia un’alternativa al potere: essa è potere, e proprio in questo consiste la sua forza. La seconda è che la leadership non basta da sola: va esercitata in equilibrio con altre forme, con la forza e con le risorse economiche, per creare sistemi di governo organizzativo coerenti, sostenibili, capaci di produrre risultati concreti.
Comprendere la leadership in questi termini non significa ridurla, ma renderla più solida. Non più mito o retorica, ma strumento reale per guidare persone e organizzazioni. È questa consapevolezza, più di qualsiasi slogan, che può fare la differenza fra un progetto che resta sulla carta e uno che si realizza davvero.