Un’azienda che veste milioni di persone in tutto il mondo, una divisione IT riportata dentro le mura dopo anni di esternalizzazione, una CIO che parla di empatia, studio e forza della costanza.
È la storia di Erika Barausse, CIO di Fashion Box – azienda di riferimento nel mondo fashion e proprietaria del marchio Replay- che racconta come la tecnologia possa diventare parte del DNA creativo, in equilibrio con processi e persone.
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In effetti, il CIO ha oggi una doppia anima: tecnologica e di business…
Sì, credo che un CIO debba unire queste due dimensioni: la conoscenza tecnologica e la visione economico-strategica. Se il CIO fosse solo un tecnologo, sarebbe facilmente sostituibile: la tecnologia cambia troppo velocemente. Servono invece anche competenze di business, capacità di leggere i processi aziendali e di dialogare con le altre funzioni. È un mestiere che richiede una preparazione ampia e, purtroppo, non sempre è percepito come una professione con un vero “pedigree”.
Quali sono, secondo te, le competenze che un CIO non può non avere?
Prima di tutto deve “aver messo le mani in pasta”. Non si può solo parlare di tecnologia: bisogna averla toccata, implementata, capita. Poi serve una profonda conoscenza dei processi aziendali: se lavori in azienda, devi capire davvero come e dove si produce valore. A questo si aggiungono doti di comunicazione ed empatia. L’IT viene spesso chiamato quando qualcosa non funziona: gestire interlocutori insoddisfatti richiede equilibrio e capacità di ascolto.
Come affronti le scelte tecnologiche strategiche?
Il mio primo passo è sempre studiare. Dedico molto tempo all’analisi delle tecnologie, verifico se ci siano aspettative eccessive e ascolto più punti di vista, anche di società di consulenza o di altri CIO. Il networking è fondamentale: una conversazione con un collega può evitare molti errori. E poi bisogna stare attenti alla shadow IT: capita che alcune funzioni scelgano soluzioni in autonomia, affascinate da promesse di innovazione rapida, ma senza verificarne la sostenibilità o la sicurezza. È compito del CIO riportare coerenza e visione.
Ci sono criteri imprescindibili nella software selection?
Sì, ma variano nel tempo e per tipologia di progetto. Oggi sicurezza e integrazione sono imprescindibili. Ma il criterio più importante per me resta evitare il lock-in: non voglio che l’azienda resti prigioniera di un fornitore o di una tecnologia. Un CIO deve mantenere l’organizzazione libera di scegliere, anche in futuro.
Quando sei arrivata in Replay, l’IT era in outsourcing. Come hai affrontato la transizione?
Quando sono arrivata, a marzo 2024, l’IT era stato esternalizzato da anni. L’obiettivo era riportarlo gradualmente all’interno. Siamo partiti da sei e oggi siamo dodici, destinati a diventare quindici entro fine anno. Abbiamo creato una struttura interna, reintrodotto sistemi come il trouble ticketing e stiamo riportando in azienda la gestione delle applicazioni.
Questo passaggio non è solo tecnico, ma culturale: significa tornare a considerare l’IT come leva strategica, non come un servizio da comprare.
Come è organizzato oggi il team IT?
Il team è suddiviso in quattro aree: infrastruttura, applicazioni, analytics e retail. Ho voluto che la parte dati avesse una figura dedicata, perché i progetti di analytics e AI richiedono competenze e mentalità diverse da quelle applicative. A breve inseriremo anche una figura di PMO per rafforzare la gestione dei progetti, che oggi non sono solo tecnologici ma spesso di trasformazione organizzativa.
E la sicurezza informatica?
Oggi la seguo personalmente, ma il mio obiettivo è introdurre presto un CISO. Idealmente, però, ritengo che il CISO non debba dipendere dal CIO, ma rispondere direttamente alla direzione generale. Nel frattempo, stiamo valutando un modello di virtual CISO esterno per colmare il gap.
Che approccio usi nella gestione dei progetti?
Preferiamo un modello agile, perché l’azienda è dinamica e i ritmi del fashion sono sempre serrati. Tuttavia, in progetti complessi – come l’introduzione del nuovo SAP – serve una parte più strutturata, quindi applichiamo un approccio ibrido. L’importante è mantenere flessibilità e velocità, senza perdere il controllo sui risultati.
Come vengono definite le priorità dei progetti?
Lavoriamo in stretta collaborazione con la direzione. Valutiamo ogni progetto sulla base di KPI chiari – aumento dei ricavi, riduzione dei costi, miglioramento dell’efficienza – e ne verifichiamo la coerenza con la strategia aziendale.
In che modo Replay sta affrontando l’intelligenza artificiale?
Abbiamo organizzato un workshop direzionale per ispirare i manager e avviato diversi piloti: nella creazione dei contenuti di prodotto e nella fase di product enrichment, oltre che nel supporto e nella customer assistance. Nessuno è ancora in produzione su larga scala: il limite principale oggi è economico. I POC costano poco, ma l’adozione estesa richiede ancora investimenti significativi.
Come si promuove l’innovazione in un team che sta ricostruendo la propria identità?
Sto cercando di farla diventare un’abitudine quotidiana. Abbiamo introdotto un momento mensile che chiamiamo “Angolo dello Wow”: ogni persona del team presenta una nuova tecnologia o un’idea interessante. È un esercizio di curiosità collettiva, ma anche un modo per sviluppare spirito critico e voglia di sperimentare. L’innovazione, per me, non è mai un reparto: è una mentalità che deve attraversare tutta l’organizzazione.
Come si distribuisce oggi il budget ICT tra run e innovazione?
Circa il 60% è destinato al run, il 40% a progetti di crescita e innovazione. È una quota alta, ma necessaria: l’azienda sta vivendo una trasformazione profonda dopo anni di immobilismo dovuti all’outsourcing. I progetti IT devono generare valore concreto, ma possibilmente stimolare un cambiamento culturale.
Com’è la tua giornata tipo da CIO?
Direi che è una maratona ben scandita. Dedico circa il 30% del tempo al mio team, perché credo molto nel confronto diretto e nella crescita delle persone. Un altro 40% lo passo con il business, entrando fisicamente negli uffici e nei reparti: solo così capisco davvero le esigenze. Un 20% è dedicato ai fornitori, per ascoltare, confrontare e anticipare trend. Il restante 10% ai numeri: budget, contratti, KPI. Lo studio e l’aggiornamento, invece, li tengo fuori dall’orario di lavoro.
E quali sono i KPI che monitori ogni giorno?
Tre in particolare: il rapporto tra progetti chiusi e progetti aperti, i ticket critici da risolvere e l’andamento del budget. Semplici, ma fondamentali per tenere la barra dritta.
Com’è oggi la relazione con le funzioni di business?
È sempre sfidante. Ma noto un cambiamento: dopo anni di assenza di innovazione, le persone vogliono nuovi progetti, partecipano, difendono le iniziative IT. Oggi l’IT viene coinvolto fin dall’inizio delle decisioni strategiche, non per entusiasmo, ma perché si è capito che senza IT le cose non si realizzano.
In passato, hai lavorato anche nella consulenza. È più stimolante lavorare in azienda?
È più difficile, ma anche più completo. In consulenza segui un progetto per un periodo limitato, poi passi ad altro. In azienda vedi tutto: la nascita dell’idea, le difficoltà, il go-live, e soprattutto i risultati reali. È un lavoro più impegnativo, ma anche più “tondo” e più appagante, perché ti confronti con la realtà ogni giorno e devi portare valore nel lungo periodo.
Hai praticato sport a livello agonistico. C’è un legame nel tuo modo di guidare il team?
Sì, lo sport mi ha insegnato la disciplina e il gusto della sfida. Mi piace uscire dalla comfort zone, mettermi in gioco, cercare sempre il “prossimo traguardo”. Credo che nel lavoro, come nello sport, la vera forza stia nella costanza: nell’essere pronti ogni giorno a migliorarsi, anche solo di un centimetro.

























