L’intelligenza artificiale non sta solo trasformando i modelli di business, ma anche la struttura stessa delle aziende. Nelle imprese di ogni settore, dai servizi legali all’automotive, sta nascendo una nuova generazione di ruoli e competenze, in cui la tecnologia non è più un supporto operativo ma un elemento strategico.
Il tema è stato al centro dell’intervento di Fabio Moioli, Leadership & AI Advisor di Spencer Stuart, durante il ManageEngine User Conference 2025. Moioli ha analizzato le evoluzioni organizzative legate alla diffusione dell’AI e la crescita della figura del Chief AI Officer (CAIO), oggi tra le più ricercate nel mercato internazionale.
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L’AI come leva di trasformazione organizzativa
Secondo Moioli, la rivoluzione attuale è paragonabile a quella generata dall’introduzione dell’elettricità all’inizio del Novecento: all’inizio veniva utilizzata per sostituire i motori a vapore, ma il vero salto avvenne quando Ford e Taylor capirono che poteva ridisegnare l’intera catena produttiva. Lo stesso vale per l’AI. «Non dobbiamo usare l’intelligenza artificiale per automatizzare ciò che già facciamo, ma per ridisegnare completamente i processi», ha spiegato.
Questo cambio di paradigma impone anche una nuova architettura interna. I team tecnologici non sono più confinati nei dipartimenti IT, ma diventano parte integrante della strategia aziendale. Spencer Stuart, che monitora l’evoluzione dei ruoli executive a livello globale, sta registrando una domanda crescente di Chief Data Officer, Head of Product e soprattutto Chief AI Officer, ruoli che uniscono capacità tecnologiche e visione manageriale. Moioli racconta di ricevere richieste da settori impensabili fino a pochi anni fa — come studi legali, realtà tax & legal o gruppi manifatturieri — dove gli imprenditori comprendono che la sopravvivenza dell’impresa dipenderà dalla capacità di guidare la trasformazione digitale.
Centralizzare o distribuire l’intelligenza artificiale
Il primo passo per diventare un’azienda “AI-powered” è decidere dove collocare il team di intelligenza artificiale. Moioli individua tre modelli organizzativi: centralizzato, decentralizzato e ibrido.
- Nel modello centralizzato, più diffuso tra le imprese di piccole dimensioni, un unico team raccoglie tutte le competenze AI e data science. È una soluzione efficiente e conveniente, ma rischia di comprimere la creatività e rallentare la diffusione dell’innovazione.
- L’approccio opposto, quello decentralizzato, prevede invece piccoli team distribuiti nelle diverse business unit, ciascuno con la propria autonomia progettuale. Questo garantisce maggiore flessibilità, ma riduce la coerenza complessiva.
- Moioli considera il modello ibrido come il più efficace. «La maggior parte delle aziende di medie e grandi dimensioni che seguiamo adotta una struttura mista, con un Chief AI Officer centrale e team distribuiti nelle diverse linee di business», spiega. In questa configurazione, il team centrale si occupa di governance, gestione dei rischi ed etica, mentre i team locali lavorano sull’innovazione di prodotto e sui progetti applicativi. È un equilibrio delicato tra efficienza e autonomia, dove la funzione del CAIO diventa di coordinamento più che di controllo.
Il Chief AI Officer come figura ponte
La nascita del Chief AI Officer rappresenta, per Moioli, la naturale evoluzione dell’organizzazione digitale. È una figura “ponte” che collega il linguaggio dei dati con le logiche del business. «Sempre più aziende chiedono profili che sappiano tradurre la complessità tecnologica in decisioni strategiche», spiega.
Secondo una ricerca interna di Spencer Stuart citata nel suo intervento, solo l’11% delle aziende a livello mondiale dispone già di un Chief AI Officer o ruolo equivalente, ma oltre il 20% ha avviato una ricerca attiva per inserirlo nei prossimi mesi. Il trend è in crescita costante e interessa non solo il settore tecnologico, ma anche quello finanziario, legale e manifatturiero.
La collocazione del CAIO varia a seconda della struttura aziendale. In alcune organizzazioni riporta al Chief Information Officer, in altre direttamente al CEO, configurazione che Moioli considera ideale: «Il CAIO deve essere vicino al vertice perché lavora su dati e decisioni che impattano l’intera strategia aziendale». Altre volte il ruolo si affianca al CIO o si integra con il marketing strategico. È il caso di Sky Italia, che ha unificato sotto un’unica figura la direzione tecnologica e quella del marketing decisionale, per rafforzare il legame tra dati, insight e posizionamento di business.
La cultura come fattore abilitante
Il cambiamento organizzativo imposto dall’intelligenza artificiale non riguarda solo la struttura, ma la mentalità. Le aziende che falliscono nell’adozione dell’AI, ricorda Moioli citando uno studio di Harvard Business Review, lo fanno per motivi culturali: il 23% dei manager individua la cultura come principale ostacolo all’adozione dell’AI, più della mancanza di dati o di competenze tecniche.
L’approccio proposto da Moioli è quello del growth mindset, teorizzato da Carol Dweck e adottato da Satya Nadella in Microsoft. «Non voglio persone “know-it-all” che pensano di sapere tutto, ma “learn-it-all” che vogliono imparare», ha ricordato citando l’ex CEO di Redmond. La cultura dell’apprendimento continuo è, secondo lui, la base per costruire team capaci di adattarsi a un contesto tecnologico in rapida evoluzione.
L’introduzione di figure come il Chief AI Officer contribuisce a diffondere questo atteggiamento, spostando l’attenzione dal controllo alla formazione trasversale. I dipendenti non sono solo utilizzatori di strumenti, ma co-creatori di processi basati sui dati. L’AI, osserva Moioli, richiede organizzazioni in cui le persone siano responsabilizzate a sperimentare, con una leadership che favorisca la collaborazione anziché la supervisione.
Dal comando alla collaborazione
Il modello gerarchico classico, centrato sulla catena di comando, entra in crisi quando l’AI diventa parte integrante delle decisioni quotidiane. Moioli sostiene che le aziende devono muoversi verso una leadership distribuita, dove i dati e gli algoritmi supportano le scelte operative senza sostituirle. Le organizzazioni, pur restando formalmente piramidali, funzionano sempre più come reti: i team analizzano i dati, formulano ipotesi e restituiscono insight che i vertici traducono in strategie.
Questo passaggio comporta una sfida cognitiva per i manager. Molti dirigenti, formati con un approccio top-down, faticano ad accettare una logica bottom-up fondata sulla statistica e sulla correlazione.
Moioli cita le ricerche di Daniel Kahneman per ricordare che «la mente umana non è naturalmente portata a pensare in termini statistici». Serve quindi un processo educativo profondo, che renda il dato uno strumento di dialogo e non di imposizione.
Competenze ibride per la nuova leadership
Le competenze richieste ai C-level stanno cambiando. Non è più sufficiente essere esperti di tecnologia o di business: occorre unire entrambi gli aspetti. Moioli descrive il C-level del futuro come «una persona che capisce la logica economica ma sa leggere anche le variabili tecniche».
Il mercato, spiega, sta premiando profili con agilità cognitiva, ossia la capacità di adattare le decisioni a informazioni nuove e di cambiare idea senza timore. A questa si aggiungono la capacità di connessione — saper costruire ponti tra team e funzioni — e la disponibilità a riformare prima che sia necessario. «Molti sanno trasformare quando è troppo tardi, pochi hanno il coraggio di farlo quando tutto sembra funzionare», osserva Moioli.
Secondo le analisi condotte da Spencer Stuart, questa combinazione di flessibilità, empatia e visione strategica definisce oggi i leader più efficaci nella gestione della trasformazione digitale.
Verso un ecosistema di competenze dinamiche
L’intelligenza artificiale sta accelerando la transizione verso organizzazioni che imparano, capaci di evolversi insieme alla tecnologia. Il Chief AI Officer non è solo un nuovo titolo nell’organigramma, ma il simbolo di un cambiamento più profondo: la consapevolezza che la tecnologia, per generare valore, deve essere guidata da una cultura condivisa.
Le imprese che adottano questo modello non si distinguono per la quantità di algoritmi sviluppati, ma per la qualità del loro coordinamento tra dati, persone e decisioni. È in questo equilibrio tra governance e creatività, tra disciplina e sperimentazione, che si gioca la competitività dell’AI nelle organizzazioni moderne.